Prefazione a Viaggio nella poesia
Di Neuro Bonifazi
Alle raccolte di poesia finora pubblicate, tra il 2010 e il 2013, – opere dal fascino sorprendente e immediato e, nello stesso tempo, sconcertante e indefinito, tanto da trasferire nel lettore e nel critico stesso una “misteriosa agitazione” (come la definimmo a suo tempo) – Franca Canapini ha aggiunto ora uno splendido e disteso “poema”, uno dei suoi “viaggi”, come chiama le sue poetiche ricerche. Non si tratta, questa volta, di una raccolta, differenziata e discontinua, di poesie, perché i testi, che ne costituiscono il tessuto, pur variegato di temi e diversi livelli di linguaggio, dal parlato all’evocativo, sono tutti convergenti, e sono come frammenti o variazioni, o “passi” di un unico percorso, nella direzione di un comune intento e di una sola “storia” simbolica, e interessati a esprimerne o a cercare di trasmetterne il senso. Un poema, quindi, un’opera che ha avuto una lunga gestazione, “tra il novembre 2009 e il giugno 2010” , ed è rimasta stranamente inedita fino ad oggi, sebbene crediamo che sia la prova migliore di un’intera attività poetica, e ne costituisca quasi il cardine e certamente il suo diffuso fondamento estetico.
Un poema, al quale l’autrice ha dato il titolo, molto attraente e impegnativo, di Viaggio nella poesia, che ne sottolinea – dopo la strana decisione di escluderlo, perché troppo “personale,” – la ripresa, ora, con lo scopo di scavare dentro, nel cuore stesso della poesia, e nella sua poesia, per qualificarne le origini e l’essenza, e decidere di una ormai matura personalità, e forse per spiegare, se possibile, quella intrigante stranezza in genere delle sue opere, tutte collegate all’ infanzia!...Ed è, secondo le sue intenzioni, un “poema d’amore”, e di un amore “immaginato”, ossia con un significato particolare e diverso da “immaginario”, e non espressione di una finzione del tutto gratuita e insignificante, composta magari di “banali poesie d’amore”, come lei afferma, in una avvertenza rivolta inizialmente Ai lettori, di temere che “possono sembrare”. Un amore che va inteso piuttosto come l’“esperienza di un’anima”, espressa nella forma di una “iniziazione” esoterica, drammatica ed esistenziale, in conseguenza di una “rivelazione” inquietante, un sogno o “visione” che l’ha turbata e coinvolta, con la sua scena o immagine, e persino sconvolta all’improvviso. E l’ha costretta a una autoanalisi, di cui fa fede questo Viaggio, che rappresenta un “percorso” interiore e profondo e magmatico, insieme a una “rivisitazione” delle antiche forme di misteriosofia greca e latina, e particolarmente orfica, che l’hanno stupita ed entusiasmata per una incredibile scoperta, perché incredibilmente coincidenti e simmetriche con gli eventi “miracolosi” suscitati da quella scena o immagine, che tornava certamente dal passato.
La figura metaforica, variamente preziosa, del “viaggio”, per sottolineare il cammino interiore che compie la fantasia poetica, soprattutto quando sia intesa come ricerca di una esoterica e profonda e mitica e persino inconsapevole identità personale e universale, è stata adoperata in ogni tempo e in molte lingue, dal primitivo mito greco degli Argonauti, guidati dal canto dell’apollineo Orfeo alla scoperta dei confini del mondo occidentale antico, e dalla simbolica discesa dello stesso personaggio, di ascendenza dionisiaca, nell’Ade, al maledettismo del “Voyage en enfer” di Rimbaud, fino all’ “orfismo” dell’ angelico “artefice” Rilke e al “Viaggio e ritorno” dell’ orfismo niezschiano di Dino Campana, agli inizi del Novecento, e oltre. Si può dire che il “viaggio”, in questo senso, sia una caratteristica tipica e fortunata della poesia definita ormai come “orfica”, antica e moderna, una categoria particolare del genere poetico e quasi un importante genere a sé, e un termine sul quale la nostra autrice incide più volte e in diverse occasioni.
All’interno della particolare dimensione mitica e orfica e dei suoi diversi esiti catartici, tra i poli estremi e contrapposti, di realismo biografico come esperienza “personale”, da un lato, e di simbolismo mitico universale, dall’altro, si colloca l’orfismo della Canapini, di cui in questo poema lei tenta di mostrare la stupefacente apparizione pressoché rituale e misteriosofica sperimentata, che possiamo definire, fin d’ora, di tipo prevalentemente naturalistico. Al di là, infatti, dell’originale impostazione teorica, e per merito forse della sua collocazione, a contatto continuo (confessato come “urticante”) con un evidente “romanzo familiare”, è indubbio che il Viaggio – forse per un impulso originario, profondo, dell’animo – conserva, in primo piano, e per garanzia di continuità, malgrado paure e turbamenti, e come scopo ultimo dell’opera, le appassionate “risonanze” dell’infanzia e i ricordi più significativi e le visioni di carattere naturalistico e addirittura stagionale della sua terra”, insieme a campestri e stagionali “apparizioni”, il tutto immaginato in un senso attuale, e addirittura mistico e cosmico.
Per fare un primo esempio dell’ interazione tra mito e natura, e di come la nostra autrice intenda il suo “amore”, ci sembra di poter dire che un momento tra i più significativi dell’opera, e anche più attraenti, malgrado l’apparente stravaganza, è il passo (alle pagg. 28/29), che la coinvolge fisicamente e quasi follemente, e con insistenza tambureggiante di parole, nel simbolismo espressionistico della natura campestre e stagionale: “Il mio amore è il sorbo dorato / che in autunno riluce tra le querce: / lascia cadere porpora / screziata sulle foglie morte. / È vento leggero / che accarezza le mie mani / bufera ampia che sradica e stordisce / pazzo puledro nero che nitrisce / dall’acqua frantumata dalle rocce./ È tamburello di parole…”. Perché meravigliarsi, dal momento che la protagonista mitica del poema è quella Proserpina che, secondo il mito orfico e ciclico dell’ “eterno ritorno” delle cose e del tempo, rappresenta il mutare delle stagioni, lo sfiorire e il rifiorire della natura, e l’alternarsi della vita e della morte, dell’amore e del dolore?...
La stessa indoratura del sole sugli alberi, sulla terra e sulla vita, è un elemento persistente, e ha il suo aggancio sempre nell’infanzia, anche prima che avvenga la “svolta” misteriosofica del poema (ma già preannunciata…), come è dimostrato, proprio per questo esempio, dalle Stagioni sovrapposte e confuse (la prima opera del 2010, ma risalente al 2007/8): “Almeno per stasera / sono dea che sorrido […] Dove siete vecchi amori del passato?[…] Nel mio giardino chiuso, eterno / coperta di pulviscolo dorato […] fronda dondolante anch’io / scopro che vi ho usato / per specchiarmi nel mio amore / e che il rosso del geranio / è solo mio” (Divagazioni sotto il
il pino).
La prima splendida raccolta poetica inneggia alla bellezza della natura, in cui si immerge e s’identifica fantasticando l’infanzia, con qualche inquietudine per il sovrapporsi ormai delle stagioni (insieme al confondersi di “pensieri ed emozioni”), e soprattutto con un gran bisogno di libertà, in una casa dove “tutte le porte sono chiuse a chiave”. È un bisogno della solo intravista, forse, nei libri di scuola, liberazione dionisiaca, selvaggia o selvatica, una invidiata “libertà selvaggia” dei pensieri, perché “selvatica oramai, potrei avere / migliaia di anni”!... E con qualche presentimento di natura animale e quasi vegetale: “L’infanzia torna / libellula posata su fiori di finocchio [...] Quasi niente era nostro / tranne la libertà di giocare / con il tempo” (Miei cari). E da lì tornano anche rimorsi o sensi di colpa, quindi coscienti, o altri forse restano inconsci e sono stati rimossi dalla memoria e dalla nostalgia: “La verità è miraggio / gioco di specchi / dove affondi / senza ritrovarti. // La verità che cerchi nel passato / è muta / ingannevole / il passato è perso / cincischiato / dalla memoria dei rimorsi” (Verità).
Nell’infanzia, dove tutto, o quasi, è chiaro e felice, almeno apparentemente, e le nuvole sono “ridenti”, e solo le colline “trattengono segreti”, e “sui campi di malva / parallela al fosso delle canne”, c’è (c’era) il “paradiso personale” (della figlia bambina, l’autrice), dove anche i genitori sono felici, il babbo che pesca, la mamma (“lei”! già un personaggio principale, sottolineato), che “ci guarda compiaciuta”, anche se ha “quella sua aria un po’ smarrita” (Archetipi). Tuttavia, alla fine, “nello scrigno blindato” del suo cuore, della nostra Franca ormai adulta, “c’è una bambina che piange da sempre / inudita / inconsolabile / trascurata / // dall’innocenza oltraggiata”(La bambina che piange).
In un tempo di poco posteriore, ma sempre agganciata all’infanzia e in particolare al suo bisogno di innocenza e di identità poetica, qui, nel Viaggio, appare la già implicita risoluzione orfica, che rappresenta forse una svolta, o accelerazione o chiarimento, con un’apparenza di eventi “miracolosi” di coincidenze e immaginazioni, e un effetto sconvolgente, per il senso drammatico e per la funzione specifica di “ritorno” - e di “rivelazione” e poi “rivisitazione”. E così ci troviamo di fronte alla misteriosa, anch’essa, avvertenza iniziale di mano dell’autrice. In questa specie di proemio è evidente una risposta alle domande di quella “bambina” e alle sue esigenze di libertà e di chiarimento, una risposta mostrata come inattesa e improvvisa e stupefacente, e nella forma ambigua di un sogno (tra senso latente e senso manifesto) o di una “visione”, un evento sconvolgente perché sembra contenere il ritorno di una situazione naturalmente infantile e di un evento di difficile interpretazione, un evento prodigioso soprattutto per le conseguenze generative che ha avuto sulla poesia.
È evidente che questa rivelazione riguarda una scena già familiare e poi dimenticata, che viene sùbito ricostruita dall’interprete adulta, e trasformata in chiave miticamente poetica, come lo scopo di un “voyage”, un modello da perseguire nella sua opera e, addirittura, come un regalo del destino, un abbozzo di “viaggio” infantile agli Inferi, da proseguire nella forma di un percorso interiore verso la sua ricostruita identità di scrittrice. E ciò avviene istintivamente, per l’idea che lei ne ha come l’universale “Anima del mondo” (o “Anima tenera / sofferente del Mondo”), e “miracolosamente”, per certe somiglianze, o “coincidenze” (lo ripetiamo) che ritrova, nella sua “rivisitazione” culturale o “acculturata”, tra la poesia mitica (e in particolare la misteriosofia orfica) e la storia del suo “romanzo familiare”, cui quella scena appartiene.
Ricostruita vagamente come è stata trasformata dall’orfismo “rivisitato” dall’autrice, nei versi intitolati Alle origini, aggiunti qui all’inizio, la scena fatale ci mostra “lei”, bambina, naturalmente, che cammina per una “stradina antica / che tornava”, e cammina “all’incontrario”, supera il “ponte sul fosso” (ossia passa negli Inferi), sradica la vegetazione (allusione al simbolo primaverile della Proserpina rapita), va avanti “in danza selvaggia”(ossia dionisiaca), e lì ha la “visione”: vede i “due bronzei servi semidei”, anzi “lui e lei” (intesi miticamente come Ade e Proserpina), che lavorano accanitamente e si affaticano (conseguenza della violenza da lei subita col rapimento), ma sono subito trasformati in due personaggi mitici, da “servi” (qualifica familiare, residuo del rimosso?...) in semidei (“bronzei”: statue di bronzo?), “nudi, alti-eleganti” (resi angelicamente, anche se illusoriamente, belli dall’immaginazione), che lavorano d’amore e d’accordo (col contorno delle belve domate ovviamente dal canto di Orfeo…). La poesia (miracolosa dell’orfismo) ha fatto il suo voyage nell’aldilà del tempo e della vita e della morte, e ha trasformato la violenza e la fatica e il dolore in libero amore e pura bellezza, approfittando anche del compromesso primavera-inverno. E l’amore, la cui “lunga onda” ha mosso l’immaginazione verso la rivisitazione, è un amore “immaginato” dalla rivisitata poesia dei miti e dei simboli, e con particolare riferimento allo “strappo” di Proserpina!...
Ecco come appare poi, nel mezzo del poema (a pag. 53), l’amore “immaginato”, e non immaginario, non finzione come banale artificio, perché, pur essendo illusorio, è legato a un contrasto interiore, reale e drammatico: “Da sempre è stato strappato questo amore o inventato o / immaginato!/ Ma che importa che sia realtà, sogno, invenzione / un sentimento che ti fa vivere e morire / semplicemente esistere / come un fiore, come un albero / come una rondine, vibrante di timore? / E se la mente lo rinnega e lo deride / non è da meno questo amore...”
Ma è soprattutto un miracolo della poesia, l’eterna, mitica, universale, cosmica, poesia orfica, quella delle statue antiche, e dei “simboli senza confini”, e della vera libertà dell’uomo e della donna; e la sua esaltazione continua, nell’esperienza della rivisitazione e immedesimazione: “E vidi cose alle origini del mondo / fisse nel turbinio del tempo / statue severe da mettere sgomento: / immobili – senza occhi – simboli che precedono / la genesi dell’uomo – / dal fondo del tempo ci dominano / il Male il Bene l’Odio l’Amore / il Tradimento / Dolcezze, Tenerezze / il Fuoco dello slancio vitale”. E anche l’ “Artefice”, un modello, una “proiezione”, l’angelo della Bellezza tremenda, che illude e consola col suo abbraccio d’amore: “l’Angelo di Rilke – ombra silenziosa che segue – l’angelo, che giunge ancora misterioso […] e vado svuotata e lieve / morbida di carezze / vado tra i simboli senza confini / li interrogo; / se mi va li sfioro: si accendono;/ serena, in questo mare magnum di fitte risonanze;/ libera, nella foresta delle pietre mormoranti // ecco, la poesia è ovunque”.
Immediata la conseguente identificazione dell’autrice con il personaggio poetico, ma fiorito e amoroso, a due facce, di figlia e di madre: la faccia di Proserpina, che più di ogni altro rappresenta la sua fondamentale e “personale” ispirazione naturalistica e rustica, selvaggia e “animalesca”, e la sua più profonda visione terrestre e amorosa della vita e dell’universo; e insieme, la messa in primo piano dell’altra faccia, dolorosa, compensativa e catarticamente compromissoria, della madre Demetra (la latina Cerere, dea delle messi), la dea della sua “terra” contadina e della sua difesa della donna, madre e moglie e figlia, nella famiglia e nella società. Conseguente è anche la chiusa dell’avvertenza: “Oggi so che […] la ragione per l’uomo è solo la superficie fragile con la quale tentiamo di tenere a freno il rovente magma di materia-energia che ci compone; e che tutto […] è equivalente e simmetrico”. La nostra autrice mette in guardia contro il “magma” dell’inconsapevole e dell’indicibile secondo la ragione, ma nello stesso tempo afferma il potere dei “misteri”, ossia della poesia misterica, orfica, anch’essi inspiegabili dalla ragione, come il canto “miracoloso” di Orfeo, ossia della poesia dionisiaca-apollinea, che ammansisce le belve e trasforma la violenza in libertà, e con la sua “immaginazione” sostituisce il dolore con l’ amore, e realmente, fisicamente, ciclicamente, l’inverno con la primavera.
Ed è qui, così ci sembra, la chiave interpretativa di tutto il Viaggio, e la soluzione del problema costituito dalla frase fondamentale che dà origine all’azione trasformativa del poema come “poema d’amore”: “Rivisitai, sull’onda lunga di un amore immaginato, simboli e miti, alchimie e misteri…”! Su questa base di equilibrio immaginativo e comparativo, e di libera e favolosa invenzione, si svolge la scrittura poetica del poema, il viaggio progettato e non casuale, sul doppio binario del mito e del romanzo familiare, della natura magmatica di ognuno e della cultura universale, attraverso un’allusione continua al referente e, insieme e armoniosamente, a quello simbolico e mitico: “E risuona la foresta di simboli / si accendono gli alberi: / è armonia universale. / Qui si fa poesia o si muore: / nessuna parola a caso”.
In particolare l’autrice afferma che il fatale sogno l’ha fatta entrare addirittura nell’ “interiorità delle pietre spezzate della roccia madre”, ossia nell’animo addolorato o colpito della madre, forte come una roccia; e con questa prima considerazione anticipa quello che sarà un leit motiv, anch’esso fondamentale, del poema, ossia l’accostamento e fusione nella reciproca maternità della figura della figlia Proserpina con la madre Demetra: rappresentativa, la prima, della scomparsa della primavera e della violenza subìta nella storia umana dalla donna, ed emblema, la seconda, della desolazione mitica dell’inverno e del dolore materno, ma anche della sua forza, nel ricercarla e nell’ ottenere che possa rivederla ogni sei mesi, come rivincita femminile e della maternità. Un accostamento che, oltre a confonderle insieme, in unità di madre e figlia, e figlia come madre, spinge l’autrice a sognare un altro sogno poetico, una sua poesia nuova e ribelle (come il mito orfico, o meglio, dionisiaco), di libertà e rivalutazione femminile, nella stessa poesia del poema, dove a un certo punto, Proserpina deciderà di sua iniziativa di restare piacevolmente negli Inferi!...L’ approfondimento di “miti e riti scritti nella memoria della specie” umana fa sì che sia lei a esprimere addirittura la meraviglia che “nessuno si è mai chiesto il mio pensiero / né il mio cuore…”!
A questo punto preferiamo lasciare ai lettori il piacere di continuare da soli nella lettura e nell’interpretazione del resto di questo stupendo Viaggio nella poesia. Un poesia che rifiuta il conformismo della versificazione tradizionale e mescola linguaggi parlati e realistici a una ricorrente e convergente scrittura simbolica e visionaria, che segue un suo nascosto cammino e il filo segreto di una tormentata e sempre misteriosamente presente azione, che si intuisce liberatrice e catartica. Una poesia che tende a sfuggire a un disegno definito, e non si lascia facilmente afferrare, una poesia fondata su un recupero continuo di se stessa, anche bambina, ma più spesso mascherato nel personaggio simbolico di Proserpina, che salva la sua introversione come ferita e colloca la sua parola in una realtà mistica e sublime.
Di Neuro Bonifazi
Alle raccolte di poesia finora pubblicate, tra il 2010 e il 2013, – opere dal fascino sorprendente e immediato e, nello stesso tempo, sconcertante e indefinito, tanto da trasferire nel lettore e nel critico stesso una “misteriosa agitazione” (come la definimmo a suo tempo) – Franca Canapini ha aggiunto ora uno splendido e disteso “poema”, uno dei suoi “viaggi”, come chiama le sue poetiche ricerche. Non si tratta, questa volta, di una raccolta, differenziata e discontinua, di poesie, perché i testi, che ne costituiscono il tessuto, pur variegato di temi e diversi livelli di linguaggio, dal parlato all’evocativo, sono tutti convergenti, e sono come frammenti o variazioni, o “passi” di un unico percorso, nella direzione di un comune intento e di una sola “storia” simbolica, e interessati a esprimerne o a cercare di trasmetterne il senso. Un poema, quindi, un’opera che ha avuto una lunga gestazione, “tra il novembre 2009 e il giugno 2010” , ed è rimasta stranamente inedita fino ad oggi, sebbene crediamo che sia la prova migliore di un’intera attività poetica, e ne costituisca quasi il cardine e certamente il suo diffuso fondamento estetico.
Un poema, al quale l’autrice ha dato il titolo, molto attraente e impegnativo, di Viaggio nella poesia, che ne sottolinea – dopo la strana decisione di escluderlo, perché troppo “personale,” – la ripresa, ora, con lo scopo di scavare dentro, nel cuore stesso della poesia, e nella sua poesia, per qualificarne le origini e l’essenza, e decidere di una ormai matura personalità, e forse per spiegare, se possibile, quella intrigante stranezza in genere delle sue opere, tutte collegate all’ infanzia!...Ed è, secondo le sue intenzioni, un “poema d’amore”, e di un amore “immaginato”, ossia con un significato particolare e diverso da “immaginario”, e non espressione di una finzione del tutto gratuita e insignificante, composta magari di “banali poesie d’amore”, come lei afferma, in una avvertenza rivolta inizialmente Ai lettori, di temere che “possono sembrare”. Un amore che va inteso piuttosto come l’“esperienza di un’anima”, espressa nella forma di una “iniziazione” esoterica, drammatica ed esistenziale, in conseguenza di una “rivelazione” inquietante, un sogno o “visione” che l’ha turbata e coinvolta, con la sua scena o immagine, e persino sconvolta all’improvviso. E l’ha costretta a una autoanalisi, di cui fa fede questo Viaggio, che rappresenta un “percorso” interiore e profondo e magmatico, insieme a una “rivisitazione” delle antiche forme di misteriosofia greca e latina, e particolarmente orfica, che l’hanno stupita ed entusiasmata per una incredibile scoperta, perché incredibilmente coincidenti e simmetriche con gli eventi “miracolosi” suscitati da quella scena o immagine, che tornava certamente dal passato.
La figura metaforica, variamente preziosa, del “viaggio”, per sottolineare il cammino interiore che compie la fantasia poetica, soprattutto quando sia intesa come ricerca di una esoterica e profonda e mitica e persino inconsapevole identità personale e universale, è stata adoperata in ogni tempo e in molte lingue, dal primitivo mito greco degli Argonauti, guidati dal canto dell’apollineo Orfeo alla scoperta dei confini del mondo occidentale antico, e dalla simbolica discesa dello stesso personaggio, di ascendenza dionisiaca, nell’Ade, al maledettismo del “Voyage en enfer” di Rimbaud, fino all’ “orfismo” dell’ angelico “artefice” Rilke e al “Viaggio e ritorno” dell’ orfismo niezschiano di Dino Campana, agli inizi del Novecento, e oltre. Si può dire che il “viaggio”, in questo senso, sia una caratteristica tipica e fortunata della poesia definita ormai come “orfica”, antica e moderna, una categoria particolare del genere poetico e quasi un importante genere a sé, e un termine sul quale la nostra autrice incide più volte e in diverse occasioni.
All’interno della particolare dimensione mitica e orfica e dei suoi diversi esiti catartici, tra i poli estremi e contrapposti, di realismo biografico come esperienza “personale”, da un lato, e di simbolismo mitico universale, dall’altro, si colloca l’orfismo della Canapini, di cui in questo poema lei tenta di mostrare la stupefacente apparizione pressoché rituale e misteriosofica sperimentata, che possiamo definire, fin d’ora, di tipo prevalentemente naturalistico. Al di là, infatti, dell’originale impostazione teorica, e per merito forse della sua collocazione, a contatto continuo (confessato come “urticante”) con un evidente “romanzo familiare”, è indubbio che il Viaggio – forse per un impulso originario, profondo, dell’animo – conserva, in primo piano, e per garanzia di continuità, malgrado paure e turbamenti, e come scopo ultimo dell’opera, le appassionate “risonanze” dell’infanzia e i ricordi più significativi e le visioni di carattere naturalistico e addirittura stagionale della sua terra”, insieme a campestri e stagionali “apparizioni”, il tutto immaginato in un senso attuale, e addirittura mistico e cosmico.
Per fare un primo esempio dell’ interazione tra mito e natura, e di come la nostra autrice intenda il suo “amore”, ci sembra di poter dire che un momento tra i più significativi dell’opera, e anche più attraenti, malgrado l’apparente stravaganza, è il passo (alle pagg. 28/29), che la coinvolge fisicamente e quasi follemente, e con insistenza tambureggiante di parole, nel simbolismo espressionistico della natura campestre e stagionale: “Il mio amore è il sorbo dorato / che in autunno riluce tra le querce: / lascia cadere porpora / screziata sulle foglie morte. / È vento leggero / che accarezza le mie mani / bufera ampia che sradica e stordisce / pazzo puledro nero che nitrisce / dall’acqua frantumata dalle rocce./ È tamburello di parole…”. Perché meravigliarsi, dal momento che la protagonista mitica del poema è quella Proserpina che, secondo il mito orfico e ciclico dell’ “eterno ritorno” delle cose e del tempo, rappresenta il mutare delle stagioni, lo sfiorire e il rifiorire della natura, e l’alternarsi della vita e della morte, dell’amore e del dolore?...
La stessa indoratura del sole sugli alberi, sulla terra e sulla vita, è un elemento persistente, e ha il suo aggancio sempre nell’infanzia, anche prima che avvenga la “svolta” misteriosofica del poema (ma già preannunciata…), come è dimostrato, proprio per questo esempio, dalle Stagioni sovrapposte e confuse (la prima opera del 2010, ma risalente al 2007/8): “Almeno per stasera / sono dea che sorrido […] Dove siete vecchi amori del passato?[…] Nel mio giardino chiuso, eterno / coperta di pulviscolo dorato […] fronda dondolante anch’io / scopro che vi ho usato / per specchiarmi nel mio amore / e che il rosso del geranio / è solo mio” (Divagazioni sotto il
il pino).
La prima splendida raccolta poetica inneggia alla bellezza della natura, in cui si immerge e s’identifica fantasticando l’infanzia, con qualche inquietudine per il sovrapporsi ormai delle stagioni (insieme al confondersi di “pensieri ed emozioni”), e soprattutto con un gran bisogno di libertà, in una casa dove “tutte le porte sono chiuse a chiave”. È un bisogno della solo intravista, forse, nei libri di scuola, liberazione dionisiaca, selvaggia o selvatica, una invidiata “libertà selvaggia” dei pensieri, perché “selvatica oramai, potrei avere / migliaia di anni”!... E con qualche presentimento di natura animale e quasi vegetale: “L’infanzia torna / libellula posata su fiori di finocchio [...] Quasi niente era nostro / tranne la libertà di giocare / con il tempo” (Miei cari). E da lì tornano anche rimorsi o sensi di colpa, quindi coscienti, o altri forse restano inconsci e sono stati rimossi dalla memoria e dalla nostalgia: “La verità è miraggio / gioco di specchi / dove affondi / senza ritrovarti. // La verità che cerchi nel passato / è muta / ingannevole / il passato è perso / cincischiato / dalla memoria dei rimorsi” (Verità).
Nell’infanzia, dove tutto, o quasi, è chiaro e felice, almeno apparentemente, e le nuvole sono “ridenti”, e solo le colline “trattengono segreti”, e “sui campi di malva / parallela al fosso delle canne”, c’è (c’era) il “paradiso personale” (della figlia bambina, l’autrice), dove anche i genitori sono felici, il babbo che pesca, la mamma (“lei”! già un personaggio principale, sottolineato), che “ci guarda compiaciuta”, anche se ha “quella sua aria un po’ smarrita” (Archetipi). Tuttavia, alla fine, “nello scrigno blindato” del suo cuore, della nostra Franca ormai adulta, “c’è una bambina che piange da sempre / inudita / inconsolabile / trascurata / // dall’innocenza oltraggiata”(La bambina che piange).
In un tempo di poco posteriore, ma sempre agganciata all’infanzia e in particolare al suo bisogno di innocenza e di identità poetica, qui, nel Viaggio, appare la già implicita risoluzione orfica, che rappresenta forse una svolta, o accelerazione o chiarimento, con un’apparenza di eventi “miracolosi” di coincidenze e immaginazioni, e un effetto sconvolgente, per il senso drammatico e per la funzione specifica di “ritorno” - e di “rivelazione” e poi “rivisitazione”. E così ci troviamo di fronte alla misteriosa, anch’essa, avvertenza iniziale di mano dell’autrice. In questa specie di proemio è evidente una risposta alle domande di quella “bambina” e alle sue esigenze di libertà e di chiarimento, una risposta mostrata come inattesa e improvvisa e stupefacente, e nella forma ambigua di un sogno (tra senso latente e senso manifesto) o di una “visione”, un evento sconvolgente perché sembra contenere il ritorno di una situazione naturalmente infantile e di un evento di difficile interpretazione, un evento prodigioso soprattutto per le conseguenze generative che ha avuto sulla poesia.
È evidente che questa rivelazione riguarda una scena già familiare e poi dimenticata, che viene sùbito ricostruita dall’interprete adulta, e trasformata in chiave miticamente poetica, come lo scopo di un “voyage”, un modello da perseguire nella sua opera e, addirittura, come un regalo del destino, un abbozzo di “viaggio” infantile agli Inferi, da proseguire nella forma di un percorso interiore verso la sua ricostruita identità di scrittrice. E ciò avviene istintivamente, per l’idea che lei ne ha come l’universale “Anima del mondo” (o “Anima tenera / sofferente del Mondo”), e “miracolosamente”, per certe somiglianze, o “coincidenze” (lo ripetiamo) che ritrova, nella sua “rivisitazione” culturale o “acculturata”, tra la poesia mitica (e in particolare la misteriosofia orfica) e la storia del suo “romanzo familiare”, cui quella scena appartiene.
Ricostruita vagamente come è stata trasformata dall’orfismo “rivisitato” dall’autrice, nei versi intitolati Alle origini, aggiunti qui all’inizio, la scena fatale ci mostra “lei”, bambina, naturalmente, che cammina per una “stradina antica / che tornava”, e cammina “all’incontrario”, supera il “ponte sul fosso” (ossia passa negli Inferi), sradica la vegetazione (allusione al simbolo primaverile della Proserpina rapita), va avanti “in danza selvaggia”(ossia dionisiaca), e lì ha la “visione”: vede i “due bronzei servi semidei”, anzi “lui e lei” (intesi miticamente come Ade e Proserpina), che lavorano accanitamente e si affaticano (conseguenza della violenza da lei subita col rapimento), ma sono subito trasformati in due personaggi mitici, da “servi” (qualifica familiare, residuo del rimosso?...) in semidei (“bronzei”: statue di bronzo?), “nudi, alti-eleganti” (resi angelicamente, anche se illusoriamente, belli dall’immaginazione), che lavorano d’amore e d’accordo (col contorno delle belve domate ovviamente dal canto di Orfeo…). La poesia (miracolosa dell’orfismo) ha fatto il suo voyage nell’aldilà del tempo e della vita e della morte, e ha trasformato la violenza e la fatica e il dolore in libero amore e pura bellezza, approfittando anche del compromesso primavera-inverno. E l’amore, la cui “lunga onda” ha mosso l’immaginazione verso la rivisitazione, è un amore “immaginato” dalla rivisitata poesia dei miti e dei simboli, e con particolare riferimento allo “strappo” di Proserpina!...
Ecco come appare poi, nel mezzo del poema (a pag. 53), l’amore “immaginato”, e non immaginario, non finzione come banale artificio, perché, pur essendo illusorio, è legato a un contrasto interiore, reale e drammatico: “Da sempre è stato strappato questo amore o inventato o / immaginato!/ Ma che importa che sia realtà, sogno, invenzione / un sentimento che ti fa vivere e morire / semplicemente esistere / come un fiore, come un albero / come una rondine, vibrante di timore? / E se la mente lo rinnega e lo deride / non è da meno questo amore...”
Ma è soprattutto un miracolo della poesia, l’eterna, mitica, universale, cosmica, poesia orfica, quella delle statue antiche, e dei “simboli senza confini”, e della vera libertà dell’uomo e della donna; e la sua esaltazione continua, nell’esperienza della rivisitazione e immedesimazione: “E vidi cose alle origini del mondo / fisse nel turbinio del tempo / statue severe da mettere sgomento: / immobili – senza occhi – simboli che precedono / la genesi dell’uomo – / dal fondo del tempo ci dominano / il Male il Bene l’Odio l’Amore / il Tradimento / Dolcezze, Tenerezze / il Fuoco dello slancio vitale”. E anche l’ “Artefice”, un modello, una “proiezione”, l’angelo della Bellezza tremenda, che illude e consola col suo abbraccio d’amore: “l’Angelo di Rilke – ombra silenziosa che segue – l’angelo, che giunge ancora misterioso […] e vado svuotata e lieve / morbida di carezze / vado tra i simboli senza confini / li interrogo; / se mi va li sfioro: si accendono;/ serena, in questo mare magnum di fitte risonanze;/ libera, nella foresta delle pietre mormoranti // ecco, la poesia è ovunque”.
Immediata la conseguente identificazione dell’autrice con il personaggio poetico, ma fiorito e amoroso, a due facce, di figlia e di madre: la faccia di Proserpina, che più di ogni altro rappresenta la sua fondamentale e “personale” ispirazione naturalistica e rustica, selvaggia e “animalesca”, e la sua più profonda visione terrestre e amorosa della vita e dell’universo; e insieme, la messa in primo piano dell’altra faccia, dolorosa, compensativa e catarticamente compromissoria, della madre Demetra (la latina Cerere, dea delle messi), la dea della sua “terra” contadina e della sua difesa della donna, madre e moglie e figlia, nella famiglia e nella società. Conseguente è anche la chiusa dell’avvertenza: “Oggi so che […] la ragione per l’uomo è solo la superficie fragile con la quale tentiamo di tenere a freno il rovente magma di materia-energia che ci compone; e che tutto […] è equivalente e simmetrico”. La nostra autrice mette in guardia contro il “magma” dell’inconsapevole e dell’indicibile secondo la ragione, ma nello stesso tempo afferma il potere dei “misteri”, ossia della poesia misterica, orfica, anch’essi inspiegabili dalla ragione, come il canto “miracoloso” di Orfeo, ossia della poesia dionisiaca-apollinea, che ammansisce le belve e trasforma la violenza in libertà, e con la sua “immaginazione” sostituisce il dolore con l’ amore, e realmente, fisicamente, ciclicamente, l’inverno con la primavera.
Ed è qui, così ci sembra, la chiave interpretativa di tutto il Viaggio, e la soluzione del problema costituito dalla frase fondamentale che dà origine all’azione trasformativa del poema come “poema d’amore”: “Rivisitai, sull’onda lunga di un amore immaginato, simboli e miti, alchimie e misteri…”! Su questa base di equilibrio immaginativo e comparativo, e di libera e favolosa invenzione, si svolge la scrittura poetica del poema, il viaggio progettato e non casuale, sul doppio binario del mito e del romanzo familiare, della natura magmatica di ognuno e della cultura universale, attraverso un’allusione continua al referente e, insieme e armoniosamente, a quello simbolico e mitico: “E risuona la foresta di simboli / si accendono gli alberi: / è armonia universale. / Qui si fa poesia o si muore: / nessuna parola a caso”.
In particolare l’autrice afferma che il fatale sogno l’ha fatta entrare addirittura nell’ “interiorità delle pietre spezzate della roccia madre”, ossia nell’animo addolorato o colpito della madre, forte come una roccia; e con questa prima considerazione anticipa quello che sarà un leit motiv, anch’esso fondamentale, del poema, ossia l’accostamento e fusione nella reciproca maternità della figura della figlia Proserpina con la madre Demetra: rappresentativa, la prima, della scomparsa della primavera e della violenza subìta nella storia umana dalla donna, ed emblema, la seconda, della desolazione mitica dell’inverno e del dolore materno, ma anche della sua forza, nel ricercarla e nell’ ottenere che possa rivederla ogni sei mesi, come rivincita femminile e della maternità. Un accostamento che, oltre a confonderle insieme, in unità di madre e figlia, e figlia come madre, spinge l’autrice a sognare un altro sogno poetico, una sua poesia nuova e ribelle (come il mito orfico, o meglio, dionisiaco), di libertà e rivalutazione femminile, nella stessa poesia del poema, dove a un certo punto, Proserpina deciderà di sua iniziativa di restare piacevolmente negli Inferi!...L’ approfondimento di “miti e riti scritti nella memoria della specie” umana fa sì che sia lei a esprimere addirittura la meraviglia che “nessuno si è mai chiesto il mio pensiero / né il mio cuore…”!
A questo punto preferiamo lasciare ai lettori il piacere di continuare da soli nella lettura e nell’interpretazione del resto di questo stupendo Viaggio nella poesia. Un poesia che rifiuta il conformismo della versificazione tradizionale e mescola linguaggi parlati e realistici a una ricorrente e convergente scrittura simbolica e visionaria, che segue un suo nascosto cammino e il filo segreto di una tormentata e sempre misteriosamente presente azione, che si intuisce liberatrice e catartica. Una poesia che tende a sfuggire a un disegno definito, e non si lascia facilmente afferrare, una poesia fondata su un recupero continuo di se stessa, anche bambina, ma più spesso mascherato nel personaggio simbolico di Proserpina, che salva la sua introversione come ferita e colloca la sua parola in una realtà mistica e sublime.