MELINA
UNA STORIA SURREALE Tale storia è nata nel 2012, un frammento alla volta, in automobile, in cucina, al computer, nel sonno, nella veglia, per strada. L’autrice non ha mai pensato a un pubblico. Scriveva perché si commuoveva; si commuoveva perché aveva scritto. Ora che l’ha finita, le pare bella e insensata; per questo la lancia alla ricerca di lettori interessati, ai quali, se ce ne fossero, non darà mai spiegazioni logiche della trama. L’autrice |
Introduzione
Avevano giocato a dame. La bambina, aperto il cofanetto della bigiotteria, si era messa ogni braccialetto, ogni collana. Ora splendeva come un albero di Natale e le girava intorno prendendole la mano, toccandole l’anello. <Cos’è questo, nonna?> <Un vecchio anello, lo vedi.> <E’ tuo?> <Sì.> <Com’è bello!> <No, non è bello. E’ solo un cerchietto.> <Non è vero, è bellissimo…> poi, con lo sguardo implorante come solo le femmine sanno avere, <Me lo fai tenere un po’?> e già tirava per toglierglielo dal dito.
<No, non posso.> La bimba tirava con forza e fu allora che l’anello si aprì. <Ooohhh> esclamarono all’unisono: l’anello si era aperto secondo una linea che lo aveva diviso nel profilo di uno spicchio di luna e in quello del sole. <E’ un anello magico, è un anello magico nonna!> esclamò eccitata la bambina <Regalamelo, regalamelo; lo terrò sempre con me. Ti prego.> La nonna sentì che avrebbe fatto la cosa giusta. Si sfilò l’anello e lo attaccò alla catenina della nipote, richiudendolo <Ora è tuo.>
Melina
Melina, la chiamavano così per le sue gotine sempre rosse nel faccino rotondo, che la facevano simile ad una melina di montagna, di quelle fragranti e profumate. Gli occhi invece erano scuri e profondi che ci potevi affondare. Parlava poco, osservava molto e faceva capricci ogni volta desiderava davvero qualcosa.
Piluccava e sua madre, che non aveva potuto allattarla, usava tutta la pazienza e l’amore possibili per farle trangugiare qualcosa.
Era una bimba di otto anni ormai, conosciuta e amata da tutti, come lo era sua madre, che compativano per le sue disgrazie.
Cresceva al centro di una piccola valle; alle spalle il fosso dai cui argini si alzavano colline di creta e boschi, davanti i campi, fino alle tre colline dei tre casolari in fila, che chiudevano l’orizzonte.
Era come sentirsi in una culla. Protetta da ogni parte.
Eppure la storia non era allegra, anzi questo sarà il suo compito: cercare l’allegria.
Michele
Giocava tra la credenza e la madia, nell’angolino che le piaceva tanto. Aveva in mano la bambola dagli occhi azzurri e parlava in silenzio con il suo amico Michele. Più là la mamma lavava i piatti con gli occhi fissi sull’acqua sporca, le mani arrossate e la bocca tremante. Ogni tanto tirava su con il naso. Era seria Melina:
<Anche oggi piange, povera mamma.> < Ma perché?> chiedeva Michele.
< Non lo so. Vieni usciamo, andiamo al sole.> E sgattaiolò fuori dalla stanza, scese le scale, percorse la strada poi svoltò per quella erbosa tra i campi, allontanandosi verso il fosso.
<Dai, Michele, andiamo a camminare nell’acqua!>
Si fece scivolare giù per la scarpata tra le acacie e giunse alla sabbia finissima della riva. Tolse le scarpette, arrotolò i pantaloncini più che potè e s’immerse nell’acqua corrente, cominciando a risalirla.
Le piaceva quel gioco. <Su, Michele, non avere paura.>
Michele tentennava, non aveva molta voglia di bagnarsi, tantomeno di assistere alle prodezze di Melina. Lo sapeva, lei non temeva di graffiarsi i piedi, di poggiarli sulla viscida melma del fondo e neppure sui sassetti e sulle pietre bitorzolute. Le piaceva scalare il fiume, sprofondare nelle pozze, risalire, farsi carezzare le caviglie dai pesciolini e dalle alghe; a lui no e cedette di malavoglia.
Lei affrontava il percorso assorta, lui dietro era come se la proteggesse.
<Melina anche oggi a bagno?>
Il vaticinio
La voce la fece sobbalzare. Più là, nel campo d’erba medica, la vecchia Nunziata, con il fuso in mano e il fazzoletto nero in testa, la chiamava.
Nunziata era di compagnia, sempre pronta ad intrattenerla, a raccontarle storie e a darle saggi ammonimenti. E poi la prendeva per mano e la portava con sé.
Le si avvicinò lesta lesta, chissà cosa aveva nelle tasche del grembiule oggi. La vecchia le diede un buffetto sulle guancia <Vieni>. <Dove andiamo?> chiese la bimba incuriosità. <Andiamo in un posto magico dove potrai chiedermi tutto quel che vuoi. Sei contenta?> Intanto la conduceva verso un’ansa sabbiosa del fosso, sotto delle grandi acacie in fiore. Melina notò con stupore che dalla sabbia si staccava una scarpata nella quale si apriva una grotta. Nunziata la condusse fino all’apertura. Dalla sommità cadevano fitte gocce d’acqua e piccole conchiglie fossili, che si ammucchiavano a terra insieme alla sabbia. <Entra> invitò la vecchia, distogliendola dall’impulso di fermarsi a raccoglierle.
Dentro c’era un grande spazio semicircolare del tutto vuoto. Raggiunsero il centro poi la vecchia restò ferma in piedi, guardandola negli occhi e girando rapidamente il fuso <Allora, cosa desideri di più?> <Che la mamma sia allegra> si sentì rispondere Melina e neanche sapeva da dove le fossero venute le parole. Ora il fuso ruotava velocissimo e Nunziata sembrava di marmo. <Chiedi l’impossibile figliola. Tua madre è destinata a soffrire.> <Ti prego, ti prego>. <Puoi tentare, ma dovrai superare tante prove difficili, tipo vincere la gravità, superare la paura della paura, rinunciare al sogno, salvare la bambina, prima di trovare l’anello che darà allegria a tua madre>. <Spiegami meglio Nunziata, non capisco.>
<Neppure io so cosa sto dicendo quando sono qua dentro. C’è qualcosa che mi suggerisce le parole ed io le riporto a chi le deve ricevere. Ma stai sicura che sono vere, avrai tanto tempo per decifrarle. Per ora prendi questo sassetto verde, ti porterà fortuna, tenendo lontano il male.> E questa volta dalle tasche del grembiule sfilò un sassolino e lo pose nella mano di Melina.
<Quando saprò qualcosa in più verrò a dirtela in sogno.>
Melina si sentì sollevata vedendo Michele che l’aspettava assorto fuori della grotta.
Il prodigio
Dormiva tra l’erba, una mano allungata a tenere quella di Michele, l’altra che stringeva il sassetto magico regalatole da Nunziata. Il sole dell’alba le carezzò il vestitino e s’innalzò nel cielo trasparente.
Da dietro le colline gemelle cominciarono ad emergere due macchie scure che si dilatarono con movimenti di danza, sfrangiandosi ai contorni e allungando tentacoli violetti verso il sole.
L’ombra cadde sulla valle. La bimba si svegliò di soprassalto. Rapida si alzò in piedi. Le colline espulsero due enormi draghi che si ersero uno di fronte all’altro in tutta la loro potenza, drizzando le schiene, aprendo le ali, allungando le zampe, irrigidendo la testa sul collo.
Cessò la brezza, l’acqua del fiume si fermò. Il cielo fu invaso dalle loro ali cangianti: rosso, blu, giallo, smeraldo. Ora aprivano la bocca orrenda di denti, ora scuotevano la lunghissima coda, ora alzavano minacciosi le zampe verso l’avversario. Si avvicinavano, si allontanavano, si giravano intorno, contraendosi e dilatandosi, al ritmo di uno spaventoso respiro. Cominciarono a lanciarsi getti di fiamme che schizzavano dalle bocche in fiumi rossodorati, bruciando il corpo del nemico.
Grandi mulinelli di ali tra le fiamme; zampe che si intrecciavano nell’assalto corpo a corpo, mentre brune squame si staccavano e piombavano a terra. Nessuno seppe dire quanto durò il duello. Nessuno a terra dove tutto ormai era immoto.
La danza delle ali rallentava poi riprendeva, i grandi corpi perdevano a poco a poco l’agilità, le zampe restavano più a lungo impigliate nelle zampe; poi entrambi compirono un gran balzo all’indietro, si contrassero, quindi scattarono in avanti. Le zampe, unghioni sguainati, squarciarono l’una il petto dell’altro e il cuore.
Un anello d’oro schizzò in alto e precipitò. I grandi corpi allora persero di tono, si rovesciarono dietro le colline e scomparvero. Ma il sangue, come una gran nuvola scura, cominciò a piovere sulle colline e nella valle, inondando tutto.
La terra bevve ed asciugò. L’acqua del fiume riprese a scorrere, la brezza a soffiare, Melina a parlare:
<Michele, hai visto anche tu? > pensò, stralunata con il cuore in tumulto.
Piazza Santa Maria Novella
Michele osservava gli altri bambini giocare nella grande piazza di Santa Maria Novella. Si rincorrevano, si acchiappavano, ridevano, si sedevano sulle pietre; un attimo e riprendevano a rincorrersi. Lui no; se ne stava seduto in un angolo in disparte. Lui l’escluso, lo strano, quello che può strillare spaventato per un niente. Tutti i bambini che erano stati spettatori spauriti delle sue crisi, lo scansavano; era imprevedibile. Avrebbe voluto rientrare in casa, ma temeva che sua madre, vedendolo salire le scale ancora una volta sconfitto, gli facesse quell’assurda carezza consolatoria passandogli la mano tra i capelli, fingendo che tutto stesse andando per il meglio.
Così si dispose alla pazienza del condannato, cercando di diventare invisibile ai compagni: una piccola statua di bambino in uno scenario di brume serali cittadine tra la gente, che frettolosa attraversava la piazza e scompariva dietro il muretto del chiostro.
Dal muretto emergevano le cime di vecchi cipressi dalle chiome sformate. Lentamente giunsero uno dopo l’altro fitti stormi di stornelli. Come sciami di api cominciarono a puntare i rametti dei cipressi. Si posavano e ripartivano; mulinavano, s’innalzavano formando nuvole stridenti, ricadevano in picchiata sugli alberi, riempiendoli, facendone vibrare i rami; si staccavano in volate intrecciate, ritornavano. In breve il cielo sopra il chiostro divenne una nuvola fremente. Michele sentì l’immagine dagli occhi entrargli nella testa, invaderlo, vibrargli in tutto il corpo; lo stridio esterno lo penetrò tutto.
Stava per abbandonarsi al solito grido di spavento ma si fece forza:
<Melina, hai visto anche tu?>
Melina gli prese la manina in silenzio. Il calore della mano lo calmò, chiuse gli occhi cercando di scacciare il mostro che lo aveva invaso, respirando a fondo. Pian piano lo stridio si chetò e gli uccellini scomparvero. Michele si avviò verso casa con una piccola fiammella nel cuore.
La luna appena nata cullava la prima stella.
…nel non tempo
anche il tempo e lo spazio
si confondono…
(ma l’eventuale lettore può provare a riordinare il caos)
La città
Per trovare il coraggio Melina doveva essere sicura di quello che faceva e del perché.
La città l’aveva confusa. La lingua incomprensibile spaventata. Nunziata, in sogno, aveva detto di andare: solo quel viaggio le avrebbe dato notizie dell’anello magico. Doveva ricordare ciò per trovare la forza di salire le scale di quello strano palazzo fatiscente. Nessun rumore. Una porta. Entrò. La luce polverosa spioveva dai finestroni. Al di là la città sembrava sospesa. I mobili sovrabbondavano e incombevano. Libri. Libri. Libri. Accanto al finestrone, seduto in una poltrona di pelle consumata, un piccolo vecchio si volse lentamente verso di lei. La bambina percepì il lampo di sgomento che gli passò negli occhi. E l’onda di calore che l’avvolse. <Tu, qui>.
La dolcezza del viso, la luce dello sguardo così familiare la sconvolsero. Arretrò e si precipitò per le scale. Sudata per l’emozione, non riusciva neppure a pensare a quello che sentiva. < E’ Michele da vecchio >, alla fine se lo confessò. Allora si fermò; tornò su, ma la poltrona era vuota. Le sembrò che una spina le si conficcasse nel cuore. Il soffio della tramontana oltre le finestre e l’immobilità interna delle cose la stordirono e la recisero. Cadde accanto alla poltrona.
Quando si riprese, la prima cosa che vide fu un libro, a terra, vicino a lei o a quello che era diventata. Una donna commossa.
Raccolse il libro ed uscì nel traffico della gente e delle auto, dirigendosi verso la stazione dei treni. Si sentiva in colpa per il libro che aveva sottratto alla casa, per cui si frugò nelle tasche del cappotto, estrasse il sassetto magico che, secondo Nunziata, avrebbe dovuto proteggerla dal male e lo lasciò sopra un muretto <Prima o poi Michele lo troverà.>
I nemici
Aveva ripreso il viaggio con il cuore grande, la sensazione netta che ogni passo le avrebbe riservato un mutamento, una sorpresa: cosa si sapeva della vita, del mondo, del cervello, dello spazio, del tempo? Poco, nulla in confronto a tutto ciò che non si percepiva, non si conosceva, non si scopriva: i percorsi di vita non erano linee dritte o curve, erano sfere come infinitamente sferico si rappresentava l’universo. La sua missione era appena cominciata, doveva trovare l’anello. Ma dove? Si allontanò dalla città, scansò i casolari sparsi, percorse vie interne alle campagne, scalò montagne in un territorio che diveniva sempre più arido e freddo. Una mattina venne arrestata da un vertiginoso dirupo.
Per chilometri e chilometri la superficie terreste era come implosa, formando una specie di fossato di cui non si vedeva il fondo: era sul ciglio; impossibile avanzare, ci sarebbero volute le ali per raggiungere il ciglio di fronte. Non solo, una freccia la colpì a un braccio, un’altra al polpaccio, un’altra le sfiorò il petto. <Non fanno molto male> pensò e si sentì stupida e spaesata.
Venivano da dietro, l’unica direzione verso la quale scappare. Fece qualche passo volgendosi indietro e altre tre frecce la colpirono. Il suo sangue colava rapido, abbondante, si raccoglieva in piccole pozze tra le pietre. Da dietro i pinnacoli emersero ombre umane che si precipitarono dove il sangue si raccoglieva più denso e, come piccole nuvole grigie, cominciarono a succhiarlo con avidità fino a leccarne il fondo. Con stupore vide l’ombra di Michele raccogliere nelle mani a coppa il suo sangue e distribuirlo agli altri.
La frecce continuavano a colpirla, il sangue a colare scorrere e raccogliersi; doveva nascondersi e proteggersi.
Corse verso le montagnole di tufo, trovò l’imboccatura di una caverna, vi si gettò dentro. Penetrò per un cunicolo stretto fino a raggiungere un ampio spazio fresco e illuminato dall’alto. Da lì si dipartivano altri cunicoli, che davano in altri spazi: una città sotterranea disabitata da secoli.
Poteva essere il suo rifugio. Tornò all’uscita. Le ombre vagavano per la steppa. Usò tutte le forze rimaste per spingere una grossa pietra, che un tempo aveva fatto da porta, sull’apertura. La pietra rotolò e si fermò, ondeggiando, proprio sulla bocca della sua nuova casa, rendendola inespugnabile. Era salva.
Chi era?
Chi era? Qual era quello vero, si chiedeva, protetto dalle mura della torre. Ricordava vagamente il ricovero. Tutti quei piccoli esseri che gli attraversano gli occhi e gli si piantavano in testa. Lo occupavano e lo facevano agire come se si fossero impossessati di lui. A volte era il Rosso, il quarantenne colto e esibizionista, a volte El Diablo, il cinquantenne sadico e perverso, a volte Endemione, il ragazzo dormiente, a volte era tanti altri, era tutti loro e non ricordava mai il suo nome.
Ricordava l’incendio del corpo e della mente, quel desiderio che lo divorava di acqua fresca che mai lo dissetava, l’odore forte di sudore, lo sbattere degli arti, il dolore fisico che si provocava per vincere quello interiore. La voglia di fare a pezzi chi sorrideva o sembrava contento. Ricordava le cinghie che lo stringevano e la sensazione di esplodere. Allora intense onde di energia si liberavano dal suo corpo e colpivano il bersaglio ovunque si trovasse.
Melina le aveva sentite arrivare come martellate ai fianchi, ali furiose nel cuore, scariche elettriche in grado di ucciderla. Infinita dolcezza e violenza cieca; assenza e presenza. Ora sentiva che quel pianto quieto sul suo torace coperto di lana, quel pianto di dolore e di amore, di dolcezza e di malinconia non sarebbe mai terminato. Lo avrebbe nascosto in un luogo segreto. Lo avrebbe protetto.
Ma non poteva fermarsi. Lei era una scommessa contro il destino e aveva un compito. Non sapeva se Michele esisteva davvero o se lo aveva immaginato e, se era la sua anima, quella oscura o quella chiara. Non poteva fermarsi. Michele poteva anche essere l’incantatore, l’antagonista nella sua fiaba.
L’altro Universo
L’aria mulinava le foglie dei boschetti del parco, facendole roteare tra terra e cielo, schiacciandole all’improvviso verso il pavimento della grande terrazza circolare, aperta sul porto e il Mediterraneo. Dai frammenti di ceramica, con i quali l’artista visionario aveva decorato il suo sogno, si staccavano minuscoli animali e si animavano, camminando lo spazio insieme alle foglie. La luce della luna si faceva avanti tra le nuvole scure a rendeva ancora più irreale la scena. Il vento sembrava volesse mischiare tutti gli elementi. Melina e Michele, seduti sulla panchina della balaustra, spalle al mare, non erano mai stati così bene.
<Dove siamo?> <Nell’Universo dell’immaginazione>
<Non ti vedo> <Neanche io>
<Ti sento> <Anch’io>
<Cosa siamo?> <Energia>
<Invisibili?> <Invisibili>
<Perché siamo qui?> <Dice che capita per la legge di attrazione>
<Allora, se ci avviciniamo troppo, ci annulleremo>
<Sì, sforzati di starmi lontana almeno di qualche passo>
<E’ quasi impossibile>
<Quasi, lavora su quel quasi; guarda a quanti piccoli mostri stiamo dando vita> Melina era meravigliata, non ci aveva mai pensato. Carezzò la lucertola che le risaliva il braccio, poi malinconica <Così non ci vedremo più> Michele sorrise <Così no. Siamo grandi ora, ce la possiamo fare da soli>.
Le parve di vederlo: un giovane uomo sereno, dai capelli neri e un maglione verde spento. Si rannicchiò in se stessa e divenne una macchia d’inchiostro.
La città sotterranea
Si sfilò le frecce una ad una; ci voleva coraggio a sopportare tutto quel dolore; il sangue colava a fiotti, lei si sentiva venir meno, pensava che sarebbe morta; si trascinò fino allo spazio illuminato e cadde in un sonno profondissimo.
La svegliò il rumore delle gocce d’acqua che uscivano dal tetto di roccia e si allungavono a costruire speroni di calcare per poi cadere a ritmo lento; era tutto bianco intorno e cilestrino, là dove l’acqua si raccoglieva formando piccoli laghi. Intorno ai laghetti c’era il verde di piante acquatiche e melograni. L’aria era ebbra di luce chiara; respirò a fondo e si sentì piena di energia; le ferite erano miracolosamente scomparse, il corpo levigato. Staccò una melagrana dall’albero più vicino, la spaccò e si dispose a mangiarne lentamente i chicchi. Scelse il lago più grande, vi si calò e cominciò a nuotare, muovendo gli arti piano piano.
Nel sonno era venuta a trovarla Nunziata. <Il segreto è nel non pensarli. Se non li immagini, scompariranno>.
Rinfrancata dal bagno nella piscina naturale, decise di esplorare la città scavata nella pietra. Percorse il corridoio più grande e si accorse che vi si aprivano numerose stanze. Entrò nella prima. Non fu un entrare, piuttosto le sembrò di levitare leggera sul soffitto: sotto, una scena della sua vita lineare. Lei e il suo compagno di vita nella grande taverna di casa che lavoravano quasi in silenzio.
Lui che snocciolava susine, lei che disponeva la marmellata nei vasetti; lui ai fornelli, lei all’asse da stiro; lui che guardava la tivù, lei che l’ascoltava preparando la cena. Qualche disarmonia, qualche frizzo, tanti giorni e notti trascorsi che li avevano resi necessari uno all’altro; sorrise, sarebbero invecchiati insieme.
Visioni
Ciò che la colpì fu la nebbia che copriva e scopriva le colline macchiate di verde. Così lenta nello scendere a valle e rarefarsi. Sapeva il luogo. Quella nebbia era un grande animale dalle mille forme ma anche un mistero docile. Udì netto il canglore delle forbici da pota; uno schianto, un altro, un altro ancora. Poi credette di vederlo. Di schiena fronte al filare, il padre giovane che potava. Era lui; gli scarponi ricoperti di terra, i pantaloni di fustagno cachi, la camicia di peloncino a quadri. Suoi il gesto del taglio secco e la mano che accarezzava il ramo e lo piegava sul filo di ferro teso. La breve sosta a contemplare l’opera. Ne ricordò lo sguardo assorto, ne sentì il pensiero che immaginava l’uva. Perché svegliarlo? Passò, fatta di nebbia, ma lui la sentì lo stesso: <Melina> nella sua voce tutto l’amore tutto. Nella sua voce tutto il dolore tutto.
La bambina era bella e triste, di una tristezza chiusa e severa.
<Tu non hai visto, Melina, il fuoco sotto casa. Non sentisti le urla di richiamo. C’era il vento ad alimentare le fiamme. E, dentro il fuoco, la mia bambina con il cappottino e la cartella.
Correvo. Non la raggiunsi mai. Non le spensero le fiamme. “Perché mamma, perché?” Non la salvai. > Un corteo di donne nere sotto fazzoletti neri, processionarie del dolore; madonne entrarono e invasero la grotta.
<Dopo una simile conoscenza cos’è mai il perdono?> ( T.S.E.)
Esseri misteriosi
Tutto quel dolore la pietrificò, disanimandola. Allora una donna sconosciuta si coricò nel suo letto, lei la guardava incuriosita: aveva la comicia bianca, forse anche i capelli; le si avvicinò, fece per abbracciarla; al tatto le sembrò di riconoscere la carne di sua madre, così morbida e molle; c’era qualcosa di inquietante in tutto ciò; la donna scivolò dal letto; cadde una confezione di carne bovina fresca che velocemente degenerò in carne putrefatta.
Ora la donna era per le scale. La raggiunse, le sedette di fronte; le raccontò di come avesse un tempo sentito provenire da lei un flusso di energia che la schiantava; la donna non disse niente.
Intanto sul pianerottolo comparve uno sconosciuto vestito come un esploratore di montagna, che si diresse al letto dove già dormiva un altro uomo sconosciuto e vi si infilò con un’espressione soddisfatta. La donna la condusse davanti alla porta della seconda camera e le fece il gesto di entrare. Lei tentennò trepida, si affacciò e lo vide: steso sul letto, vestito di una tunica di lana scura forse verde forse nera su cui risaltavano tonalità di arancio e di rosso, un bastone accanto. Michele se ne stava supino e paralizzato in attesa. Sentì il sorriso buono della donna alle spalle. Niente poteva trattenerla: si avvicinò rapida, si curvò su di lui.
Lui aprì grandi braccia e la circondò, lei poggiò la testa sul suo torace e pianse.
Improvvisamente si ritrovò sull’apertura di una piccola stanza di pietra; al centro, vestito di bianco, seduto in posizione di loto, serafico, l’essere se ne stava immobile, lo sguardo all’infinito. Fu colpita dagli occhi, uguali ai suoi e dallo spettacolo della luce.
L’uomo era circondato e come compenetrato da fasci di luce dalle tinte tenui, sfumate di verde, rosa, violetto, azzurro che ruotavano lentissimamente. A momenti anche la posizione del suo corpo cambiava, alternando un’immagine di profilo seduta su una sedia, pensierosa, a quella del loto. Era una visione di indescrivibile serenità. <Non siamo> <Non siamo> <Non siamo> pensava lui; <Siamo> <Siamo> <Siamo> rispondeva lei. Potevano comunicare con la mente.
<Perché non mi aiuti?> <Troverai la soluzione da sola.>
La luce disfece l’immagine, impallidì, ruotò ancora un poco, si spense.
La torre
Michele si era costruito una torre dalle mura robuste. Solo il tetto era di vetro trasperente. Per vedere sempre il cielo. Si era chiuso nella stanza pentagonale, scegliendo come compagni i libri e il sussurrare dei morti. Lì niente gli faceva paura. Non aveva più bisogno della mano di Melina. Del resto lei era morta. Quel giorno. Quando vide accartocciarsi la valle come un foglio, l’inchiostro nero colare alle pareti e nelle tenebre lanciò il suo ultimo grido.
Era morta e lui aveva smesso di gridare. Leggeva, scriveva, misurava la distanza delle stelle. Lasciava che il tempo gli scivolasse addosso. Pensava, immaginava, ascoltava i rumori del mondo.
Saliva e scendeva le scale della torre. Attendeva che l’aria si separasse dalla polvere. Sapeva che ad orologi impazziti sarebbe giunta l’ora.
A volte si dimenticava. Quel giorno era solo un giovane padre con famigliola e amici al parco di Bomarzo. <Facciamo vedere i mostri ai bambini.> E i bambini avevano saltellato per il bosco sacro, rotolato sull’erba dei pratini, riso dei grandi mostri grotteschi sdraiati tra gli alberi. Al tramonto erano tornati tutti alla macchina sereni. Però Michele si era staccato ancora e la sua ombra era rimasta seduta tra le braccia aperte di Proserpina.
Quando si levò la luna, entrò nella casa storta. Fu una vertigine; perso ogni punto di riferimento gli parve di trovarsi in un altro parco. Accanto aveva l’ombra di Melina. Salirono le scalette di pietra silenziosi, entrarono nella casa e la piccola scomparve nella donna affacciata alla finestra. Si erano ritrovate.
Il pozzo
Si tolse le scarpe, si avvicinò decisa al bordo, lo scavalcò. C’era da cercare quella bambina, da metterla in salvo, non poteva pensare a se stessa. Cominciò a scendere le scalette di ferro, poste all’interno del pozzo, pensando solo ad aggrapparsi bene a quelle superiori man mano che scendeva e augurandosi che in fondo non ci fosse troppa acqua. Del resto non pioveva da mesi e i pozzi non tiravano più.
La luce diveniva sempre più debole, le scale e le pareti sempre più scivolose. Sentì il vuoto sotto il piede, che si era allungato a cercare lo scalino; capì che era arrivata al fondo; guardò verso l’alto. Solo un globo di luce lattescente. Allungò il piede e cercò l’acqua. Percepì con disgusto solo qualcosa di viscido, come un corpo morbido che si afflosciava sotto i suoi piedi. Aveva avuto sempre orrore di tutti i rettili e quello doveva essere un serpente enorme, forse acciambellato, forse addormentato. Cercò di spostarsi e trovare il fondo di sassi e acqua, ma i piedi continuavano a pestare solo carni e spire. Per il terrore perse l’orientamento; per quanto provasse, non riusciva a ritrovare le scale. Intanto le sembrava che dal corpo del rettile si sprigionasse come un flusso di energia che la irrorava tutta e la incantava. Una luce bianco azzurra le penetrò tutte le fibre e le uscì dal dorso dei piedi e delle mani, prendendo forma di piccoli serpenti luminosi. Dal centro della fronte le uscì un cobra eretto, dagli occhi splendenti come smeraldi. Era calma ora, sentiva che aveva visto quell’immagine da qualche parte, ma non ricordava dove.
Il parco
Durò poco, poi la sensazione scomparve, sentì sotto i piedi i sassetti e l’acqua fino alle caviglie. La bambina uscì dall’ombra all’improvviso, la tirò per i pantaloni <Vieni > e la condusse verso una parete dove riuscì ad intravvedere un foro largo quanto bastava per attraversare il muro del pozzo. Melina avanti, lei dietro, attraversarono insieme all’acqua che scivolava fuori e scorreva al centro di quella che le sembrò una caverna di roccia appena illuminata da un raggio di luce spiovente. Nelle viscere.
La bambina sembrava sicura, come conoscesse la strada. La guidò tra le pietre appuntite del fondo, la tirò verso delle rudimentali scale di pietra, che salivano a chiocciola nel buio.
Saliva in quella irrealtà silenziosa fatta di macchie più chiare o più scure, di masse nere e minacciose, di radi sgocciolii d’acqua. Infine si trovò in un pianerottolo e sopra la sua testa la luce e l’aria. Guardò in basso: la luce colorava profili di stalattiti e stalagmiti pinnacoli e guglie di pietra così ferme da millenni, così vive, così morte. Il lavorio lento del tempo. Melina era di nuovo scomparsa. Pensò che avesse già passato la porta chiusa alla sua destra e ci provò anche lei. Posò la mano sulla maniglia di ferro, l’abbassò, tirò e la porta si aprì su una stanzetta circolare dal soffitto conico, del tutto vuota. Si avvicinò alla finestra, guardò fuori: il parco Guell riposava al lume di luna; la cascatella di fronte scianguottava a ritmo lento lucidando le rane e i piccoli rettili di ceramica.
Il dubbio
Il pugno, era divenuto un minuscolo monolite. L’anello nella mano le sembrava caldo, pesante, vivo.
Si avvicinò leggera, confondendosi con i cespugli. Allungò lo sguardo dai mattoni forati che davano luce al granaio. Lei fuori, piccola con i capelli nel sole, loro all’interno, a capotavola, eleganti negli abiti scuri. Non li aveva mai visti così belli, così suoi. Si perse a contemplare i decori di fiori veri e di foglie alle pareti e negli angoli. I bambini chini sotto i tavoli che raccoglievano confetti. I visi dei commensali, grotteschi. Era festa. Bevevano, cantavano, mangiavano, scherzavano.
< Quando avrai l’anello – aveva detto Nunziata – lo devi dare ai tuoi genitori, durante la festa del loro matrimonio. Solo così romperai l’incantesimo della malasorte e loro non dovranno affrontare la perdita dei figli>. < Ma se i miei fratelli non moriranno, io potrò nascere?> Nunziata aveva avuto un lampo di compassione <Questo non mi è dato saperlo>.
Era lì, poteva entrare, confondersi con gli altri bimbi sotto i tavoli, arrivare gattoni alle gambe degli sposi, allungare il braccio e posare il talismano sul loro piatto. Sarebbero stati felici per sempre.
Ma lei sarebbe nata?
A dodici anni scappò dalla strada e dalla casa, cercando di scrollarsi di dosso il suo essere. Si rifugiò nella periferia, nei campi, nei boschi. Solo. Con quella marea di sangue dentro che lo annegava. Solo, con tutto il mondo dentro. Soprattutto il mostro.
La luna sfolgorava tonda al centro del cielo; lontana, in un oceano d’aria. E il sangue di marea rapido salì alla testa. Gli sembrava di esplodere dentro la paralisi delle fibre. Immobile, di fronte al laghetto, vide il mostro materializzarsi come un’ombra minacciosa. Enorme, peloso, agitato si gettò nell’acqua, si scosse, sprofondò, riemerse; i grandi occhi folli su di lui, la bocca digrignata. Il lupo mannaro l’aveva puntato, non c’era scampo. Provò a correre. Il corpo non si muoveva.
La donna giunse da dietro, gli pose una mano sulla spalla. Insieme guardarono il mostro negli occhi, finché non scomparve.
< Non ti possiederà più, si è dissolto.>
Tra i due mondi
Mangiavano fragole e cioccolatini, alzavano calici alla Parola. Ridevano nel ritrovarsi, piccoli narcisi, dentro antichi palazzi, al primo vento di primavera. L’ancella sfinita ce l’aveva fatta. Incastrati tra i libri la sua famiglia di ribelli al completo, le amiche, tutti gli altri. L’atmosfera era buona, sembrava vera; solo lei mancava, lei come sempre non c’era.
Chissà da quale tempo chissà da quale spazio Michele le aveva risposto. <Togli quella mano; ho bisogno del mio mostro.> Ora era così vecchia, le sembrava che non le fosse rimasto niente. Dormire. Sognare. Ma non aveva sempre dormito e sognato? Qual era la vita? Quella vera.
Quando sentiva sua moglie aprire la porta e i bambini saltellare per le scale, riemergeva dai suoi sogni solitari, apriva la porta si lasciava illuminare dalla luce proveniente dal finestrone e gli sembrava di attraversare un vetro. Passava da un mondo all’altro felice di farlo, era come ritornare in vita e scoprire odori, suoni, movimento, tutte le volte per la prima volta. Allora era contento di collaborare ad ogni lavoro che c’era da fare al momento. Si rotolava nel tappeto con i figli, andava a buttare la spazzatura, si piccava di cucinare lui per tutti. Ed era bravo davvero ad inventare nuove saporose ricette vegetariane. Ormai riusciva a dominare la sua pluralità e le sue dislocazioni.
Pensava a Michele. Chi era davvero? Il suo compagno di giochi, l’essere in frantumi quello sdraiato nel letto come una divinità? Quel dio paralizzato. Ogni volta era una trafittura acutissima pensarlo preda della malattia.
La rinuncia al sogno
Avevano cominciato i piedi a ribellarsi. Così dolorosi ogni volta che li poggiava a terra. Camminava sempre meno. Le mani non reggevano la presa. Gli occhi si perdevano nella loro nebbia. Ogni gesto diventava lento e difficile, fuori tempo. Poi la malavoglia l’aveva assalita e sottomessa. In fondo non c’era motivo per darsi da fare. Si poteva restare inerti in poltrona o nel letto per ore e ore, lasciando che il pensiero si sregolasse e confondesse. I piccoli progetti quotidiani avevano assunto forma liquida, le spinte a fare qualcosa cadevano come i capelli. Anche i denti erano caduti. Aveva chiuso nei cassetti tutti gli specchi. Aspettava. Ora si vedeva dall’alto del soffitto: un guscio vuoto. Perché niente, niente di quello che aveva fatto, pensato, detto aveva avuto senso. Ogni mano ogni cuore che aveva toccato e amato si erano infine allontanati. Era così per tutti alla fine della vita? Un deserto senza voci?
C’era una vastità di luce dorata distesa sul mare; anche lei era luce riflessa, rifratta; in lontananza, all’orizzonte, la macchiolina nera di Michele si muoveva sul confine terra cielo. Melina lasciava piccole orme d’oro fuso sull’acqua.
Il guardiano degli alberi
Dopo l’esplorazione nella città alta, scesero al porto. Era sera. Oltre il trafficato viale lungomare, c’erano i parcheggi e un giardino di grandi ficus lucenti. <Compriamo dei panini e andiamo a mangiarli sotto gli alberi, almeno la brezza ci rinfrescherà>. Suo marito acconsentì, contento di potersi finalmente sedere al fresco. Seduti su un muretto, stavano mangiando un panino al formaggio e bevendo birra, quando da dietro i tronchi spuntò un individuo alto e barcollante <Ho fame> disse con naturalezza. Melina lo guardò con curiosità: pantaloni e maglietta bucherellati, vecchie convers stracciate, capelli crespi e sporchi, unghie nere <Un barbone; giovane, troppo giovane, cosa gli sarà successo?> pensò, mentre gli allungava un panino. Lui afferrò il pane e le si sedette accanto. Suo marito bisbigliò preoccupato <Chi è, che vuole questo?> <Chiediamoglielo.> E rivolgendosi al giovane <Da dove vieni?> <Dagli alberi> <Sì, l’ho visto. Intendevo dove stavi prima.> <Prima non lo ricordo. Io sono il guardiano degli alberi.> <Vuoi dire che ti occupi della loro salute?> <Della loro vita. Sono sempre stato qui. Li innaffio, gli lucido le foglie, scaccio quelli che rompono i rami, non permetto a nessuno di arrampicarsi.> <Perché?> <Perché sono il guardiano.>
Suo marito, sempre più agitato <Dagli qualcosa e andiamo> disse, alzandosi.
<Dove vai? Vieni che te li faccio vedere da vicino> cominciò a saltellare il barbone, tirandolo per la maglietta. <Lascia> intervenne Melina <deve andare a prendere la macchina al parcheggio, altrimenti ci fanno la multa>poi, rivolta al marito <Vai, ti aspetto sotto quel lampione> e lo seguì fin lì.
Quando il marito scomparve tra le auto, tornò indietro commossa dalla solitudine del giovane, che ora ciondolava tristemente sul muretto.
<Ciao, i tuoi alberi sono splendidi. Svolgi un lavoro magnifico.>
Lui si riscosse <Vuoi vedere il mio posto segreto?> <Non posso, devo andare.> <Dai, un attimo solo.> Melina si lasciò tentare dalla curiosità. Ora sembrava allegrissimo, accelerò il passo, la prese per mano e la condusse vero un albero gigantesco al centro del parco. Scostò dal tronco un cespuglio <Guarda> esclamò soddisfatto, indicando una cavità alla base del tronco <entra, è la mia casa.> <La tua casa? Vuoi dire che dormi lì dentro?>
<Voglio dire che è la mia casa, la mia casa, la mia casa. Entra>. <Sì, sì; ho capito; ma non entro; sono troppo grossa non ci passo>. <Entra, entra> spingeva lui.
La paura cominciò a serpeggiarle nella schiena; guardava la cavità buia, sentiva le spinte sempre più violente, poi le mani che le stringevano le braccia, poi l’intero corpo sul suo dorso. Si voltò per fermarlo e restò paralizzata. Sarà stata la luce scarsa che le giocava un brutto scherzo, ma il giovane le sembrò ricoperto da un’armatura di squame verdi, le mani si erano trasformate in artigli, il viso nel muso di una belva a fauci aperte.
Per un attimo si sentì perduta. <Devo pensare, pensare, pensare> poi le venne spontaneo allungare la mano e fargli una carezza sui capelli. Lui si disarmò, ritornò alla normalità, restando irrigidito, in piedi, a testa bassa.
Il marito la trovò ad aspettarlo sotto il lampione. Lei pensava che non si deve mai aver paura della paura.
La consegna
Infine qualcosa le si strappò dentro, alzò la mano fino al piatto, lasciò cadere l’anello.
La madre lo vide luccicare, abbassò gli occhi sul visetto che spuntava da sotto la tovaglia, ne incrociò lo sguardo. Raccolse il cerchietto d’oro e glielo porse <E’ tuo Melina, solo tuo. Non puoi risparmiarci il dolore, cara; tu puoi vivere anche per noi; tu sei la nostra allegria>.
La manta
Vedere dall’alto. <Se guardi dall’alto, niente ti rattrista> pensava mentre saliva sulla città, dentro la cabina del London Eye <si prendono le distanze e ogni cosa appare buffa e senza vera importanza>.
La città si estendeva a perdita d’occhio. Edificata in secoli e secoli di lavoro umano. Eppure gli uomini non erano che puntolini dispersi e rapidamente cancellati dall’altezza. Ecco perché non riusciva mai ad affrontare le situazioni con la serietà dovuta. Nelle riunioni di lavoro, più che concentrarsi sul problema del momento, si perdeva a guardare gli atteggiamenti altrui ed ogni situazione, persino la più grave, le sembrava comica. Ognuno recitava la propria parte. Le maschere si sprecavano. Le chiamavano ruoli, status, decoro ma non erano che scudi dietro i quali nascondere fragilità e pochezza.
Non sapeva da quanto fosse imprigionata sotto il grande corpo della manta, schiacciata sulla sabbia del fondo, accecata dall’oscurità, smarrita dal silenzio.
Percepì come un leggero sollievo alla schiena, poi sentì più netto il corpo della manta solleversi dal suo e innalzarsi verso l’alto; sbarbagliò luce azzurra e potè vedere le grandi ali appuntirsi sulla sabbia, ondularsi ed infine sollevarsi tra nuvolette di sabbia. Si rotolò sul fondo fino a ritrovarsi supina. La manta, come un grande corvo nero, si allontanava leggera verso la superficie. Era libera, dopo tanta apnea.
La caduta
I bambini sfidavano i getti d’acqua, che uscivano dall’asfalto e lucidavano la grande piazza, come guerrieri impavidi, esaltati dalla lotta. Era mezzanotte di torrido agosto; Michele più là guardava felice la pietruzza verde che aveva trovato sul muretto; alla luce dei lampioni brillava come uno smeraldo. La bellezza gli aveva fatto dimenticare anche le strida vicinissime dei compagni eccitati. Si riscosse quando scese il silenzio; nel fruscio delle fontane alzò la testa e li vide venirgli incontro tutti insieme, decisi a derubarlo. Gridò e corse all’impazzata tagliando la piazza, saltando le scale di un vicolo, inoltrandosi per un largo viale che portava fino alle mura della città. Dietro sentiva la torma che guadagnava terreno; non ce la faceva più, raggiunse un muretto, si voltò: vide solo esseri mostruosi e cristalli balenanti.
Sollevò il piede per riprendere la fuga ma calpestò il vuoto. Il cuore sussultò e si fermò; in caduta libera, le luci della città sbarbagliavano e si spegnevano una ad una.
Era autunno quando, accompagnato dalla mamma, uscì dall’ospedale. Non parlava più.
I genitori non capivano come, davanti allo spettacolo di una natura piena di calore, alle vigne cariche d’uva, ai torrenti che scorrevano allegri per la campagna, dove lo portavano a fare lunghe passeggiate, lui restasse totalmente indifferente, gli occhi rigirati all’interno di sé. Nessun gesto che manifestasse il minimo entusiasmo o almeno una men che minima esigenza. Non capivano perché all’improvviso si mettesse a correre furiosamente o, con indicibile rapidità, battesse le ciglia come a voler scacciare delle orribili visioni e poi cadesse svenuto.
Il soldato sparò e corse; ghignando soddisfatto, si avvicinò al bambino a terra, gli pose la mano sulla bocca, poi lo sollevò, ne strinse il corpo tra le ginocchia, gli avvinghiò le mani sul collo tenero, ruotò, tirò e lo finì. Con un grugnito lanciò il piccolo corpo lontano da sé.
Arrivarono gli altri. Quando videro Michele si immobilizzarono. Uno lasciò la presa e raccolse da terra un grosso bastone, gli occhi lampeggiavano su di lui e si avvicinavano.
Tutto divenne rosso e bruciante, qualcuno urlava. Michele sprofondava e sprofondava nel fuoco. C’erano ombre di esseri primitivi che sgozzavano altri esseri. Smembravano i cadaveri con i coltelli di pietra e gettavano le carni sulla brace dei fuochi. Donne e bambini mangiavano famelici. Il vento muoveva violento le fiamme che si staccavano e volavano verso l’alto. Poi fu il buio totale e il gelo.
Quando cadeva a terra in quel modo, la madre lo tirava su, lo accarezzava, cercava di riscaldarlo, finché non riapriva gli occhi inespressivi.
Un giorno iniziò ad urlare a ritmo del respiro e non ci fu più niente da fare. Dovettero ricoverarlo.
L’aereo
Era notte sull’autostrada dove sfrecciava, tutt’uno con l’auto nei sorpassi, attenta ai camion che lampeggiavano nello specchietto. All’orizzonte le luci dei paesi disposti disordinatamente sui crinali. Un bagliore si allungò da un’ondulazione lontana, spargendo in cielo aloni di luminosità.
Aumentava velocemente, incandescente e viva, finchè uscì tutta intera enorme e rosseggiante dal buio. Melina ne era incantata. Continuava a correre sull’asfalto evitando gli ostacoli, sbirciando la luna che si rimpiccioliva e sbiancava man mano che saliva in alto, quando una massa enorme e rumorosa tagliò il cielo sulla sua testa. L’aereo, con la coda in fiamme, continuò per un po’ il suo volo a pochi metri da terra in direzione della luna poi si schiantò. Il traffico rallentò. Melina si portò sulla corsia d’emergenza. Fermò la macchina, uscì, scavalcò il guard rail e corse verso il punto in cui era caduto. Mucchi di terra frantumata, frasche, polvere, fumo, piccole lingue di fuoco. L’aeroplano sembrava una grande bestia abbattuta. Silenzio, solo lo sfrigolare spaventoso dei focherelli della coda. Ombre confuse si addensavano agli oblò. La fusoliera sembrava integra e il portellone socchiuso.
Cercò di aiutare la gente che lo spingeva dall’interno, tirandolo con tutte le sue forze. Finalmente si spalancò. In un silenzio irreale, i passeggeri cominciarono ad uscire ordinatamente, aiutandosi uno con l’altro.
Alla fine dell’esodo, Melina entrò e, tra i bagagli sparsi ovunque e il fumo, cercò i feriti. C’era un anziano con le gambe spezzate; chiese aiuto; alcuni passeggeri tornarono indietro e lo trascinarono fuori.
Così fu per una ragazza ferita alla testa e dopo per un giovanotto svenuto. Sembrava non ci fosse più nessuno, quando in fondo alla fusoliera, tra dense volute di fumo, scorse gli occhi sbarrati di un ragazzo. Si avvicinò, mentre fiamme e calore aumentavano, lo riscosse, gli aprì la cintura di sicurezza <vai> <vai> ma lui non si muoveva. Staccò il martello appeso alla parete e cominciò a colpire con decisione l’oblò più vicino. Alla fine si schiantò in una gragnuola di vetro. Sollevò il ragazzo e gli infilò la testa e il torace nell’apertura, poi lo spinse, finchè non cadde al di là <Vai> <Corri corri>.
Si voltò verso il fondo: il fuoco divampava alto, assumendo la forma mostruosa di un essere umano gigantesco che ruotava le spalle incandescenti sulle pareti. Indietreggiò e si diede ad una fuga disperata. Fu quando raggiunse gli altri che l’aereo esplose. L’aria la gettò a terra supina, la luna divenne rosso sangue. < Michele è salvo> e le sembrava di vederlo correre tra i cespugli, lontano dal disastro.
Farmaci e parole fecero il loro effetto: lentamente risalì dall’abisso, ricompattandosi fino a riconoscersi negli specchi. Un giorno disse al medico il suo nome. Ce l’aveva fatta. Ma era molto debole, incerto come un bambino che inizia a camminare, e preferì restare ancora un po’ insieme agli altri degenti e alla squadra, dalla quale si sentiva protetto. Ascoltava musica, disegnava, inventava storie, osservava con attenzione i comportamenti di tutti. Una mattina una ragazza venne a fare visita al suo compagno di stanza e fu come se, dopo la lunghissima notte gelida, fosse sorto il sole.
La fuga
Non poteva fermarsi. La città di pietra era un utero dal quale rinascere ancora. Si inerpicò sulle pareti della grande sala verso la luce in alto. Non era facile, il piede scivolava sulla polvere, le mani si scorticavano nella presa; fu l’abilità acquisita da bambina nelle sue escursioni solitarie a condurla in cima. Fuori, nella luce dell’alba. Dall’alto la pianura era una distesa di morte, i nemici macchie grigiastre inerti, incollate alla terra. C’era da affrontare il canyon e le sembrava quasi impossibile. L’incubo della caduta di tutti i sogni di bambina ritornava. Temeva la paralisi, la contrazione dei muscoli, la rigidità delle fibre, la frantumazione del corpo. Il vento soffiava sempre più intenso, risuonava ovunque, l’avvolgeva con le sue onde morbide. Respirò a fondo e si lasciò andare come una foglia che si stacca dal ramo.
Rapidamente l’aria la portò sopra il baratro la mulinò dentro la profonda ferita della terra; la sua mente lasciava cadere ogni zavorra. Leggera leggera, aderire alle pieghe dell’aria, essere aria, non pensare, farsi occhi, lente, contemplazione. Essere colore nel colore, musica nella musica, aria nell’aria. Non essere. Sapeva che se solo avesse mantenuto un pensiero, un granello di sabbia, sarebbe precipitata. E il vento con un’ultima raffica la fece riemergere e la depositò al di là del canyon.
Il serpente
Scese nel seminterrato ed aprì la porta del sottoscala per prendere una bottiglia d’olio. Un fruscio. Silenzio. Un fruscio. Da dove proveniva? Guardò sotto le cassette, tra le bottiglie di vino; non c’era niente. Stava per afferrare l’olio quando vide spuntare da sotto i cestini portafrutta la testa di un grosso serpente. Scattò all’indietro nel tentativo malriuscito di uscire e chiudere la porta. Il serpente si dirigeva lento e deciso verso di lei, scuotendo la lingua. Ne era terrorizzata: grosso scuro orrendo. Schiacciò la schiena al muro, sperava solo che non fosse velenoso, non trovava via di scampo. Con la mano sinistra sentì un bastone appeso alla parete, lo tirò e si accinse al combattimento. Ma la serpe sembrava non volesse attaccarla, ora si muoveva sinuosa davanti a lei come se danzasse e in ogni ansa del corpo sorgevano florescenze verdi dorate. Melina ne era affascinata. Poi con uno scatto si erse, allungò la testa e restò immobile davanti a lei, guardandola negli occhi. Le sembrava che gli occhietti della bestia sorridessero tra l’astuto e il benevolo < Io sono il farmaco, il farmaco.> Non capiva ma lasciò il bastone.< Io sono il farmaco, io sono il farmaco, io sono il farmaco> continuava il serpente e si girava lento su se stesso, fino a formare un cerchio, fino a toccarsi la coda con la bocca. E continuò a girare e girare, illuminandosi tutto. <Ha lo stesso colore dell’olio> pensò Melina.
Per un attimo le sembrò che l’immagine di un medico sapiente prendesse il posto della serpe, ma fu un attimo poi lo spazio ritornò alla sua normalità; la bestia era scomparsa. Melina prese la bottiglia d’olio e tornò in cucina.
Il serpente si girava lento su se stesso, fino a formare un cerchio, fino a toccarsi la coda con la bocca. <E’ il farmaco, è il farmaco, è il farmaco> sussurrava lento il medico, osservando Michele che osservava il filmato incantato.
<E’ la tua energia vitale. Tantra. Tanta. Non averne paura. Dominala. Sai farlo. Sai farlo. Sai farlo.> La voce avvolgeva Michele e lo pacificava.
La pioggia
Non era facile tornare a casa dopo quella lunga riunione di lavoro. Guidava attenta da ore sotto la pioggia battente. Pioveva senza sosta da quasi due giorni ed i campi intorno alla città non ce la facevano più ad assorbire, così l’acqua che li allagava, appena trovava un minimo dislivello, si rovesciava sull’asfalto. Con le luci abbaglianti delle auto che sopraggiungevano in senso contrario, la scorgevi all’ultimo momento e ci finivi dentro, ritrovandoti come al centro di una cascata che impediva qualsiasi visuale. All’inizio le era parsa divertente tutta quell’acqua ovunque, ma, calata la notte, si sentiva stanca e preoccupata. <Manca poco> si consolò, mentre entrava nella porta principale della città. Seguì le indicazioni lasciate dai vigili, evitando tutte le strade e i sottopassaggi interrotti, prese il viale che costeggiava la ferrovia e finalmente si trovò al semaforo vicino casa sua. Aspettò il verde e ripartì svoltando a sinistra. Un barbone traballante le comparve davanti all’improvviso; sterzò a destra per non travolgerlo e perse il controllo dell’auto. Vide il muro della casa venirle incontro a velocità incredibile poi si accesero mille soli.
La slitta scivolava veloce sul ghiaccio polare. Da sotto le pellicce che l’avvolgevano tutta, Melina osservava quell’immensità che scintillava gelida e azzurra, al lume di luna. Altrove qualcuno la stava aspettando.
Il barbone udì il botto e vide l’auto schiantata. Accorse, cercando di tirare fuori il corpo della donna, ma la portiera piegata non si apriva. Intanto stava accorrendo gente; si spaventò e si allontanò.
Più che mai confuso, con la sensazione di conoscere quella donna, cominciò a tremare e correre, correre verso le piante del parco. Non si rese conto di scivolare nel laghetto finché non si sentì risucchiare dall’acqua e dal fango. Ma gli sembrava che a risucchiarlo fosse un delirio di luce.
Il castagno
Funghi, castagne? La foresta, che rivestiva tutte le alture intorno alla città, li accolse con il suo intrico di multiformi vegetali silenziosi. L’aria si fece verde, il sentiero scivoloso di muschio; quasi un percorso di guerra. Si scavalcavano grossi tronchi scortecciati, si calpestavano piccole pigne marcescenti. L’occhio saettava dagli stravaganti funghetti-margherita, alle fronde che impedivano il cammino, alle balze scivolose di terriccio. Ovunque si scorgevano forme inconsuete in quell’aria primordiale. Paesaggio alieno - pensava Melina, mentre rispondeva alle domande dei compagni e partecipava al gioco - non occorre esplorare altri mondi, già questa nostra terra ci riserva sorprese continue, a saperle cercare, a saperle vedere.
Scendevano verso il tempio dei castagni; si disperdevano, piccoli esseri rasserenati, sotto quel tetto di foglie, sopra quel letto di disfacimento.
Poi fu la radura. Di colpo Melina s’incantò: al centro, il castagno secolare sembrava un gigante sconfitto. Annientato dal fulmine. Se ne stava immobile, il grosso tronco mezzo scortecciato che terminava in cinque monconi di rami contorti; tutt’intorno, a terra, i resti dei suoi rami come corna di animali primordiali, come canoe o antiche imbarcazioni disossate.
Le parve di riconoscerlo; era come se stesse aspettandola, come se le parlasse. L’attrasse a sé.
Si avvicinò, carezzò il muschio della corteccia, la carne liscia e umida, denudata; lo abbracciò. Il tronco si allargava sulla terra in ondulazioni di corteccia e cavità. Tane accoglienti e misteriose -pensò- chinandosi, per entrare in quella più grande. Nel buio, che sapeva di legno umido, luccicò qualcosa: un piccolo piccolo oggetto in bilico sulle fibre legnose. L’anello! Infine l’aveva trovato.
C’era voluta quasi tutta la sua vita lineare, terribili prove, speranza e disperazione, pazienza e sperdimento, impegno e volontà, c’era voluto di non credere più al sogno, di lasciarsi andare allo scorrere lento dei giorni e l’anello le era stato restituito. Restituito? Voleva dire che era suo fin dall’inizio? Che doveva solo riconoscerlo? Non poteva chiedere ai compagni. Solo Michele, l’invisibile Michele, poteva saperlo. Dov’era dopo tanta dimenticanza? Le parve che dal grande tronco si sprigionassero delle onde concentriche; allora, con un palpito di gioia, avvertì che era lì; era il castagno.
La luna nera
Nel buio assoluto, anche il silenzio non era quello della terra. Questo era eterno. Non ci sarebbero stati mai il vento e l’acqua a scuoterlo, alcuna forma di vita mai, tra i ciottoli e la sabbia. Sapeva di arditi astronauti che avevano raggiunto quei luoghi ed erano riusciti a tornare; anni di allenamento, sgomento e sacrifici. A lui era bastato pensarla, in notti irreali trascorse nella sua contemplazione. Alla fine la marea di luce, l’aveva risucchiato e portato con sé.
Se ne stava accucciato sulla sua pelle nera in quella solitudine astrale, lontanissime le stelle, ancora più lontana sembrava la terra.
Sulla luna non sarebbe stato più necessario parlare. Aveva preso la luna. No, era lei che aveva preso lui e non lo liberava.
I saltelli a piedi nudi di Melina risuonarono come un boato. <Cosa fai qui da solo? Vieni, andiamo.> <Come hai potuto arrivare fin qui?> <Mi ha guidato il mio amore.> <Il tuo amore? Sai cos’è?> <No, con precisione no. Credo che sia il bisogno di volere il bene degli altri anche quando ci fanno del male oppure quello di volere il proprio. E’ quando stai bene con un'altra persona, quando non ti stancheresti mai di ascoltarla o di raccontargli i tuoi pensieri.> <Non hai paura di me?> <A volte, quasi sempre, ma poi qualcosa la vince; è come per una rosa rarefatta che, schiudendosi, involgarisce la bellezza di tutte le altre>. Non capiva, ma si sentiva trasportare nello spazio morbido, il corpo unito a quello di lei. Si allontanavano dalla massa scura della luna, desiderando solo la luce e la terra.
Disorientati dall’oscurità, videro apparire una specie di cometa. Non era una cometa, piuttosto una nuvola di nebbiolina luminosa, una scia che si spostava nella direzione della sua parte più densa. <Sembrano fantasmi di esseri umani> <sembra un corteo di anime>. Davanti a tutte quelle forme avviluppate l’una all’altra c’era un essere a due teste, una aveva la forma del sole, l’altra della luna. <E’ bellissimo> <E’ perfetto>. Si spostarono verso il prodigio e fu allora che si resero conto di trovarsi davanti ad uno specchio. <Siamo noi> sussurrarono insieme, infinitamente meravigliati. Ora era chiaro perché quello che pensava uno sembrava che l’avesse pensato l’altro.
…e il tempo tornò…
Le dune
Se ne stava distesa sulla sabbia morbida, in un avvallamento tra una duna e l’altra ad osservare la perfetta bellezza del piccolo giglio di mare, che ondeggiava alle folate di vento.
Le sue dune, di mattina; il profumo della macchia. I piccoli ginepri, i ligustri, le ciocche di margherite in fiore. Il frangersi lento del mare sulla grande spiaggia. Non c’era luogo migliore per salutare la sua avventura sulla terra. <Sarà come quando si abbassa un interruttore>
<Vai a lavoro, Melina?> era così viva sua madre mentre diceva le ultime parole, quella mattina d’inverno, seduta al tavolo con il tovagliolo al collo, mentre le imboccavano la colazione. Era come se avesse detto non mi abbandonare, resta. E lei l’aveva abbracciata ed era uscita triste.
Quando credi di aver dimenticato, le immagini tornano così nitide, ma così nitide, che ti stupisci di possederle ancora; come quella volta che improvvisamente le era apparso il viso del suo primo amore, così come era stato a vent’anni e come non sarebbe stato più. Allora aveva compreso: anche il contatto di un attimo, s’imprime per sempre nel nostro cuore. Tutto ciò che abbiamo conosciuto resta in noi. Tra la nebbia dello sguardo, scorse la sua famiglia sulla spiaggia, i bambini, i figli, le compagne dei figli, suo marito. Si sentì allegra, avrebbe voluto ancora camminare a quattro zampe sulla sabbia, con i figli a cavalcioni sulla schiena, provare il salto in lungo con le bambine, stonare le canzoni preferite con il suo uomo.
Il suo uomo, che da ragazzo si passava le dita tra i lunghi capelli, come avrebbe fatto ora, che era quasi calvo; e non poteva più guidare la moto; e non poteva più leggere il giornale per tante ore; il suo uomo, bambino sempre; le veniva da ridere; ma sì, poteva farcela anche senza di lei.
Sull’altra costa, dall’altra parte del mare, anche Michele giocava sulla spiaggia con i suoi figli e la sua donna. Lo colse, sagoma controluce, nell’attimo in cui si slanciava a parare la palla in volo <Bravo, l’hai presa> esultò, poi si spense. Il piccolo giglio rabbrividì.
Aveva avuto una vita lunghissima, lui, che cercava la morte ogni giorno, senza ragione. Quando la famiglia lo vedeva aprire la porta della torre e richiudersela alle spalle, lo lasciava andare e restava in attesa: prima o poi sarebbe tornato dal suo viaggio con le mani colme di sassetti colorati per tutti.
In solitudine, fuori il mondo, Michele dava sfogo alla sua energia creativa. Aveva ammucchiato un’enorme quantità di libri che leggeva e rileggeva, quaderni aperti dappertutto in cui appuntava i pensieri che come acute punte di spillo gli bucavano la testa, disegni, schemi, calcoli: il pensiero umano scorreva e dilagava dentro quelle mura spesse; lo inondava in analisi e sintesi e poi esplodeva in intuizioni e illuminazioni. Ogni volta gli sembrava di morire di parto e ogni volta rinasceva, dopo l’esplosione di tutte le sue fibre. Dopo. C’era sempre una parola, un’immagine, una musica che non era mai esistita prima e che avrebbe commosso l’umanità.
Nessuno lo aveva mai incontrato realmente eppure molti lo conoscevano e lo amavano attraverso le sue opere. Quell’amore, che penetrava dentro le mura e lo avvolgeva, gli faceva l’effetto della piccola coccinella allegra che si posava a sorpresa sulla scrivania e, impavida, talvolta, gli risaliva le dita e il braccio. Come se dicesse <non sei solo> <non sei solo> <nessuno è solo mai>.
Ma lui non poteva essere allegro come l’ingenua coccinella, la sua anima conteneva il piombo della crudeltà e del dolore umano; rappresentarlo in colori cupi, parole nere, suoni dissonanti, era il suo destino.
Dalla torre vedeva succedersi le stagioni, voltoni di anni che lentamente rendevano più fragile il corpo, più debole la mente. Quel giorno, in rumori impercettibili, gli orologi delle pareti si liquefecero e colarono sul pavimento. Sentì che il momento temuto e sperato stava arrivando. Allora aprì la porta della torre, uscì nella luce, s’incamminò verso la spiaggia. Alle dune si lasciò alla sabbia, spossato. Due tortore sfrecciarono verso il mare. Nel suo sguardo annebbiato si mutarono in due bambini che correvano allegri e si perdevano lontani all’orizzonte, confondendosi con l’aria.
Epilogo
La luce frangeva il buio e, nel baluginio dell’ombra, era crepuscolo ed era aurora; era autunno ed era primavera.
Scintille d’oro pulsavano, rallegrando l’aria, perché tutto era stato reso come si conviene alla vita, quando tenacemente si attacca alla volontà di rendere al mondo tutto ciò che l’ha nutrita.
Melina, la chiamavano così per le sue gotine sempre rosse nel faccino rotondo, che la facevano simile ad una melina di montagna, di quelle fragranti e profumate. Gli occhi invece erano scuri e profondi che ci potevi affondare. Parlava poco, osservava molto e faceva capricci ogni volta desiderava davvero qualcosa.
Piluccava e sua madre, che non aveva potuto allattarla, usava tutta la pazienza e l’amore possibili per farle trangugiare qualcosa.
Era una bimba di otto anni ormai, conosciuta e amata da tutti, come lo era sua madre, che compativano per le sue disgrazie.
Cresceva al centro di una piccola valle; alle spalle il fosso dai cui argini si alzavano colline di creta e boschi, davanti i campi, fino alle tre colline dei tre casolari in fila, che chiudevano l’orizzonte.
Era come sentirsi in una culla. Protetta da ogni parte.
Eppure la storia non era allegra, anzi questo sarà il suo compito: cercare l’allegria.
Michele
Giocava tra la credenza e la madia, nell’angolino che le piaceva tanto. Aveva in mano la bambola dagli occhi azzurri e parlava in silenzio con il suo amico Michele. Più là la mamma lavava i piatti con gli occhi fissi sull’acqua sporca, le mani arrossate e la bocca tremante. Ogni tanto tirava su con il naso. Era seria Melina:
<Anche oggi piange, povera mamma.> < Ma perché?> chiedeva Michele.
< Non lo so. Vieni usciamo, andiamo al sole.> E sgattaiolò fuori dalla stanza, scese le scale, percorse la strada poi svoltò per quella erbosa tra i campi, allontanandosi verso il fosso.
<Dai, Michele, andiamo a camminare nell’acqua!>
Si fece scivolare giù per la scarpata tra le acacie e giunse alla sabbia finissima della riva. Tolse le scarpette, arrotolò i pantaloncini più che potè e s’immerse nell’acqua corrente, cominciando a risalirla.
Le piaceva quel gioco. <Su, Michele, non avere paura.>
Michele tentennava, non aveva molta voglia di bagnarsi, tantomeno di assistere alle prodezze di Melina. Lo sapeva, lei non temeva di graffiarsi i piedi, di poggiarli sulla viscida melma del fondo e neppure sui sassetti e sulle pietre bitorzolute. Le piaceva scalare il fiume, sprofondare nelle pozze, risalire, farsi carezzare le caviglie dai pesciolini e dalle alghe; a lui no e cedette di malavoglia.
Lei affrontava il percorso assorta, lui dietro era come se la proteggesse.
<Melina anche oggi a bagno?>
Il vaticinio
La voce la fece sobbalzare. Più là, nel campo d’erba medica, la vecchia Nunziata, con il fuso in mano e il fazzoletto nero in testa, la chiamava.
Nunziata era di compagnia, sempre pronta ad intrattenerla, a raccontarle storie e a darle saggi ammonimenti. E poi la prendeva per mano e la portava con sé.
Le si avvicinò lesta lesta, chissà cosa aveva nelle tasche del grembiule oggi. La vecchia le diede un buffetto sulle guancia <Vieni>. <Dove andiamo?> chiese la bimba incuriosità. <Andiamo in un posto magico dove potrai chiedermi tutto quel che vuoi. Sei contenta?> Intanto la conduceva verso un’ansa sabbiosa del fosso, sotto delle grandi acacie in fiore. Melina notò con stupore che dalla sabbia si staccava una scarpata nella quale si apriva una grotta. Nunziata la condusse fino all’apertura. Dalla sommità cadevano fitte gocce d’acqua e piccole conchiglie fossili, che si ammucchiavano a terra insieme alla sabbia. <Entra> invitò la vecchia, distogliendola dall’impulso di fermarsi a raccoglierle.
Dentro c’era un grande spazio semicircolare del tutto vuoto. Raggiunsero il centro poi la vecchia restò ferma in piedi, guardandola negli occhi e girando rapidamente il fuso <Allora, cosa desideri di più?> <Che la mamma sia allegra> si sentì rispondere Melina e neanche sapeva da dove le fossero venute le parole. Ora il fuso ruotava velocissimo e Nunziata sembrava di marmo. <Chiedi l’impossibile figliola. Tua madre è destinata a soffrire.> <Ti prego, ti prego>. <Puoi tentare, ma dovrai superare tante prove difficili, tipo vincere la gravità, superare la paura della paura, rinunciare al sogno, salvare la bambina, prima di trovare l’anello che darà allegria a tua madre>. <Spiegami meglio Nunziata, non capisco.>
<Neppure io so cosa sto dicendo quando sono qua dentro. C’è qualcosa che mi suggerisce le parole ed io le riporto a chi le deve ricevere. Ma stai sicura che sono vere, avrai tanto tempo per decifrarle. Per ora prendi questo sassetto verde, ti porterà fortuna, tenendo lontano il male.> E questa volta dalle tasche del grembiule sfilò un sassolino e lo pose nella mano di Melina.
<Quando saprò qualcosa in più verrò a dirtela in sogno.>
Melina si sentì sollevata vedendo Michele che l’aspettava assorto fuori della grotta.
Il prodigio
Dormiva tra l’erba, una mano allungata a tenere quella di Michele, l’altra che stringeva il sassetto magico regalatole da Nunziata. Il sole dell’alba le carezzò il vestitino e s’innalzò nel cielo trasparente.
Da dietro le colline gemelle cominciarono ad emergere due macchie scure che si dilatarono con movimenti di danza, sfrangiandosi ai contorni e allungando tentacoli violetti verso il sole.
L’ombra cadde sulla valle. La bimba si svegliò di soprassalto. Rapida si alzò in piedi. Le colline espulsero due enormi draghi che si ersero uno di fronte all’altro in tutta la loro potenza, drizzando le schiene, aprendo le ali, allungando le zampe, irrigidendo la testa sul collo.
Cessò la brezza, l’acqua del fiume si fermò. Il cielo fu invaso dalle loro ali cangianti: rosso, blu, giallo, smeraldo. Ora aprivano la bocca orrenda di denti, ora scuotevano la lunghissima coda, ora alzavano minacciosi le zampe verso l’avversario. Si avvicinavano, si allontanavano, si giravano intorno, contraendosi e dilatandosi, al ritmo di uno spaventoso respiro. Cominciarono a lanciarsi getti di fiamme che schizzavano dalle bocche in fiumi rossodorati, bruciando il corpo del nemico.
Grandi mulinelli di ali tra le fiamme; zampe che si intrecciavano nell’assalto corpo a corpo, mentre brune squame si staccavano e piombavano a terra. Nessuno seppe dire quanto durò il duello. Nessuno a terra dove tutto ormai era immoto.
La danza delle ali rallentava poi riprendeva, i grandi corpi perdevano a poco a poco l’agilità, le zampe restavano più a lungo impigliate nelle zampe; poi entrambi compirono un gran balzo all’indietro, si contrassero, quindi scattarono in avanti. Le zampe, unghioni sguainati, squarciarono l’una il petto dell’altro e il cuore.
Un anello d’oro schizzò in alto e precipitò. I grandi corpi allora persero di tono, si rovesciarono dietro le colline e scomparvero. Ma il sangue, come una gran nuvola scura, cominciò a piovere sulle colline e nella valle, inondando tutto.
La terra bevve ed asciugò. L’acqua del fiume riprese a scorrere, la brezza a soffiare, Melina a parlare:
<Michele, hai visto anche tu? > pensò, stralunata con il cuore in tumulto.
Piazza Santa Maria Novella
Michele osservava gli altri bambini giocare nella grande piazza di Santa Maria Novella. Si rincorrevano, si acchiappavano, ridevano, si sedevano sulle pietre; un attimo e riprendevano a rincorrersi. Lui no; se ne stava seduto in un angolo in disparte. Lui l’escluso, lo strano, quello che può strillare spaventato per un niente. Tutti i bambini che erano stati spettatori spauriti delle sue crisi, lo scansavano; era imprevedibile. Avrebbe voluto rientrare in casa, ma temeva che sua madre, vedendolo salire le scale ancora una volta sconfitto, gli facesse quell’assurda carezza consolatoria passandogli la mano tra i capelli, fingendo che tutto stesse andando per il meglio.
Così si dispose alla pazienza del condannato, cercando di diventare invisibile ai compagni: una piccola statua di bambino in uno scenario di brume serali cittadine tra la gente, che frettolosa attraversava la piazza e scompariva dietro il muretto del chiostro.
Dal muretto emergevano le cime di vecchi cipressi dalle chiome sformate. Lentamente giunsero uno dopo l’altro fitti stormi di stornelli. Come sciami di api cominciarono a puntare i rametti dei cipressi. Si posavano e ripartivano; mulinavano, s’innalzavano formando nuvole stridenti, ricadevano in picchiata sugli alberi, riempiendoli, facendone vibrare i rami; si staccavano in volate intrecciate, ritornavano. In breve il cielo sopra il chiostro divenne una nuvola fremente. Michele sentì l’immagine dagli occhi entrargli nella testa, invaderlo, vibrargli in tutto il corpo; lo stridio esterno lo penetrò tutto.
Stava per abbandonarsi al solito grido di spavento ma si fece forza:
<Melina, hai visto anche tu?>
Melina gli prese la manina in silenzio. Il calore della mano lo calmò, chiuse gli occhi cercando di scacciare il mostro che lo aveva invaso, respirando a fondo. Pian piano lo stridio si chetò e gli uccellini scomparvero. Michele si avviò verso casa con una piccola fiammella nel cuore.
La luna appena nata cullava la prima stella.
…nel non tempo
anche il tempo e lo spazio
si confondono…
(ma l’eventuale lettore può provare a riordinare il caos)
La città
Per trovare il coraggio Melina doveva essere sicura di quello che faceva e del perché.
La città l’aveva confusa. La lingua incomprensibile spaventata. Nunziata, in sogno, aveva detto di andare: solo quel viaggio le avrebbe dato notizie dell’anello magico. Doveva ricordare ciò per trovare la forza di salire le scale di quello strano palazzo fatiscente. Nessun rumore. Una porta. Entrò. La luce polverosa spioveva dai finestroni. Al di là la città sembrava sospesa. I mobili sovrabbondavano e incombevano. Libri. Libri. Libri. Accanto al finestrone, seduto in una poltrona di pelle consumata, un piccolo vecchio si volse lentamente verso di lei. La bambina percepì il lampo di sgomento che gli passò negli occhi. E l’onda di calore che l’avvolse. <Tu, qui>.
La dolcezza del viso, la luce dello sguardo così familiare la sconvolsero. Arretrò e si precipitò per le scale. Sudata per l’emozione, non riusciva neppure a pensare a quello che sentiva. < E’ Michele da vecchio >, alla fine se lo confessò. Allora si fermò; tornò su, ma la poltrona era vuota. Le sembrò che una spina le si conficcasse nel cuore. Il soffio della tramontana oltre le finestre e l’immobilità interna delle cose la stordirono e la recisero. Cadde accanto alla poltrona.
Quando si riprese, la prima cosa che vide fu un libro, a terra, vicino a lei o a quello che era diventata. Una donna commossa.
Raccolse il libro ed uscì nel traffico della gente e delle auto, dirigendosi verso la stazione dei treni. Si sentiva in colpa per il libro che aveva sottratto alla casa, per cui si frugò nelle tasche del cappotto, estrasse il sassetto magico che, secondo Nunziata, avrebbe dovuto proteggerla dal male e lo lasciò sopra un muretto <Prima o poi Michele lo troverà.>
I nemici
Aveva ripreso il viaggio con il cuore grande, la sensazione netta che ogni passo le avrebbe riservato un mutamento, una sorpresa: cosa si sapeva della vita, del mondo, del cervello, dello spazio, del tempo? Poco, nulla in confronto a tutto ciò che non si percepiva, non si conosceva, non si scopriva: i percorsi di vita non erano linee dritte o curve, erano sfere come infinitamente sferico si rappresentava l’universo. La sua missione era appena cominciata, doveva trovare l’anello. Ma dove? Si allontanò dalla città, scansò i casolari sparsi, percorse vie interne alle campagne, scalò montagne in un territorio che diveniva sempre più arido e freddo. Una mattina venne arrestata da un vertiginoso dirupo.
Per chilometri e chilometri la superficie terreste era come implosa, formando una specie di fossato di cui non si vedeva il fondo: era sul ciglio; impossibile avanzare, ci sarebbero volute le ali per raggiungere il ciglio di fronte. Non solo, una freccia la colpì a un braccio, un’altra al polpaccio, un’altra le sfiorò il petto. <Non fanno molto male> pensò e si sentì stupida e spaesata.
Venivano da dietro, l’unica direzione verso la quale scappare. Fece qualche passo volgendosi indietro e altre tre frecce la colpirono. Il suo sangue colava rapido, abbondante, si raccoglieva in piccole pozze tra le pietre. Da dietro i pinnacoli emersero ombre umane che si precipitarono dove il sangue si raccoglieva più denso e, come piccole nuvole grigie, cominciarono a succhiarlo con avidità fino a leccarne il fondo. Con stupore vide l’ombra di Michele raccogliere nelle mani a coppa il suo sangue e distribuirlo agli altri.
La frecce continuavano a colpirla, il sangue a colare scorrere e raccogliersi; doveva nascondersi e proteggersi.
Corse verso le montagnole di tufo, trovò l’imboccatura di una caverna, vi si gettò dentro. Penetrò per un cunicolo stretto fino a raggiungere un ampio spazio fresco e illuminato dall’alto. Da lì si dipartivano altri cunicoli, che davano in altri spazi: una città sotterranea disabitata da secoli.
Poteva essere il suo rifugio. Tornò all’uscita. Le ombre vagavano per la steppa. Usò tutte le forze rimaste per spingere una grossa pietra, che un tempo aveva fatto da porta, sull’apertura. La pietra rotolò e si fermò, ondeggiando, proprio sulla bocca della sua nuova casa, rendendola inespugnabile. Era salva.
Chi era?
Chi era? Qual era quello vero, si chiedeva, protetto dalle mura della torre. Ricordava vagamente il ricovero. Tutti quei piccoli esseri che gli attraversano gli occhi e gli si piantavano in testa. Lo occupavano e lo facevano agire come se si fossero impossessati di lui. A volte era il Rosso, il quarantenne colto e esibizionista, a volte El Diablo, il cinquantenne sadico e perverso, a volte Endemione, il ragazzo dormiente, a volte era tanti altri, era tutti loro e non ricordava mai il suo nome.
Ricordava l’incendio del corpo e della mente, quel desiderio che lo divorava di acqua fresca che mai lo dissetava, l’odore forte di sudore, lo sbattere degli arti, il dolore fisico che si provocava per vincere quello interiore. La voglia di fare a pezzi chi sorrideva o sembrava contento. Ricordava le cinghie che lo stringevano e la sensazione di esplodere. Allora intense onde di energia si liberavano dal suo corpo e colpivano il bersaglio ovunque si trovasse.
Melina le aveva sentite arrivare come martellate ai fianchi, ali furiose nel cuore, scariche elettriche in grado di ucciderla. Infinita dolcezza e violenza cieca; assenza e presenza. Ora sentiva che quel pianto quieto sul suo torace coperto di lana, quel pianto di dolore e di amore, di dolcezza e di malinconia non sarebbe mai terminato. Lo avrebbe nascosto in un luogo segreto. Lo avrebbe protetto.
Ma non poteva fermarsi. Lei era una scommessa contro il destino e aveva un compito. Non sapeva se Michele esisteva davvero o se lo aveva immaginato e, se era la sua anima, quella oscura o quella chiara. Non poteva fermarsi. Michele poteva anche essere l’incantatore, l’antagonista nella sua fiaba.
L’altro Universo
L’aria mulinava le foglie dei boschetti del parco, facendole roteare tra terra e cielo, schiacciandole all’improvviso verso il pavimento della grande terrazza circolare, aperta sul porto e il Mediterraneo. Dai frammenti di ceramica, con i quali l’artista visionario aveva decorato il suo sogno, si staccavano minuscoli animali e si animavano, camminando lo spazio insieme alle foglie. La luce della luna si faceva avanti tra le nuvole scure a rendeva ancora più irreale la scena. Il vento sembrava volesse mischiare tutti gli elementi. Melina e Michele, seduti sulla panchina della balaustra, spalle al mare, non erano mai stati così bene.
<Dove siamo?> <Nell’Universo dell’immaginazione>
<Non ti vedo> <Neanche io>
<Ti sento> <Anch’io>
<Cosa siamo?> <Energia>
<Invisibili?> <Invisibili>
<Perché siamo qui?> <Dice che capita per la legge di attrazione>
<Allora, se ci avviciniamo troppo, ci annulleremo>
<Sì, sforzati di starmi lontana almeno di qualche passo>
<E’ quasi impossibile>
<Quasi, lavora su quel quasi; guarda a quanti piccoli mostri stiamo dando vita> Melina era meravigliata, non ci aveva mai pensato. Carezzò la lucertola che le risaliva il braccio, poi malinconica <Così non ci vedremo più> Michele sorrise <Così no. Siamo grandi ora, ce la possiamo fare da soli>.
Le parve di vederlo: un giovane uomo sereno, dai capelli neri e un maglione verde spento. Si rannicchiò in se stessa e divenne una macchia d’inchiostro.
La città sotterranea
Si sfilò le frecce una ad una; ci voleva coraggio a sopportare tutto quel dolore; il sangue colava a fiotti, lei si sentiva venir meno, pensava che sarebbe morta; si trascinò fino allo spazio illuminato e cadde in un sonno profondissimo.
La svegliò il rumore delle gocce d’acqua che uscivano dal tetto di roccia e si allungavono a costruire speroni di calcare per poi cadere a ritmo lento; era tutto bianco intorno e cilestrino, là dove l’acqua si raccoglieva formando piccoli laghi. Intorno ai laghetti c’era il verde di piante acquatiche e melograni. L’aria era ebbra di luce chiara; respirò a fondo e si sentì piena di energia; le ferite erano miracolosamente scomparse, il corpo levigato. Staccò una melagrana dall’albero più vicino, la spaccò e si dispose a mangiarne lentamente i chicchi. Scelse il lago più grande, vi si calò e cominciò a nuotare, muovendo gli arti piano piano.
Nel sonno era venuta a trovarla Nunziata. <Il segreto è nel non pensarli. Se non li immagini, scompariranno>.
Rinfrancata dal bagno nella piscina naturale, decise di esplorare la città scavata nella pietra. Percorse il corridoio più grande e si accorse che vi si aprivano numerose stanze. Entrò nella prima. Non fu un entrare, piuttosto le sembrò di levitare leggera sul soffitto: sotto, una scena della sua vita lineare. Lei e il suo compagno di vita nella grande taverna di casa che lavoravano quasi in silenzio.
Lui che snocciolava susine, lei che disponeva la marmellata nei vasetti; lui ai fornelli, lei all’asse da stiro; lui che guardava la tivù, lei che l’ascoltava preparando la cena. Qualche disarmonia, qualche frizzo, tanti giorni e notti trascorsi che li avevano resi necessari uno all’altro; sorrise, sarebbero invecchiati insieme.
Visioni
Ciò che la colpì fu la nebbia che copriva e scopriva le colline macchiate di verde. Così lenta nello scendere a valle e rarefarsi. Sapeva il luogo. Quella nebbia era un grande animale dalle mille forme ma anche un mistero docile. Udì netto il canglore delle forbici da pota; uno schianto, un altro, un altro ancora. Poi credette di vederlo. Di schiena fronte al filare, il padre giovane che potava. Era lui; gli scarponi ricoperti di terra, i pantaloni di fustagno cachi, la camicia di peloncino a quadri. Suoi il gesto del taglio secco e la mano che accarezzava il ramo e lo piegava sul filo di ferro teso. La breve sosta a contemplare l’opera. Ne ricordò lo sguardo assorto, ne sentì il pensiero che immaginava l’uva. Perché svegliarlo? Passò, fatta di nebbia, ma lui la sentì lo stesso: <Melina> nella sua voce tutto l’amore tutto. Nella sua voce tutto il dolore tutto.
La bambina era bella e triste, di una tristezza chiusa e severa.
<Tu non hai visto, Melina, il fuoco sotto casa. Non sentisti le urla di richiamo. C’era il vento ad alimentare le fiamme. E, dentro il fuoco, la mia bambina con il cappottino e la cartella.
Correvo. Non la raggiunsi mai. Non le spensero le fiamme. “Perché mamma, perché?” Non la salvai. > Un corteo di donne nere sotto fazzoletti neri, processionarie del dolore; madonne entrarono e invasero la grotta.
<Dopo una simile conoscenza cos’è mai il perdono?> ( T.S.E.)
Esseri misteriosi
Tutto quel dolore la pietrificò, disanimandola. Allora una donna sconosciuta si coricò nel suo letto, lei la guardava incuriosita: aveva la comicia bianca, forse anche i capelli; le si avvicinò, fece per abbracciarla; al tatto le sembrò di riconoscere la carne di sua madre, così morbida e molle; c’era qualcosa di inquietante in tutto ciò; la donna scivolò dal letto; cadde una confezione di carne bovina fresca che velocemente degenerò in carne putrefatta.
Ora la donna era per le scale. La raggiunse, le sedette di fronte; le raccontò di come avesse un tempo sentito provenire da lei un flusso di energia che la schiantava; la donna non disse niente.
Intanto sul pianerottolo comparve uno sconosciuto vestito come un esploratore di montagna, che si diresse al letto dove già dormiva un altro uomo sconosciuto e vi si infilò con un’espressione soddisfatta. La donna la condusse davanti alla porta della seconda camera e le fece il gesto di entrare. Lei tentennò trepida, si affacciò e lo vide: steso sul letto, vestito di una tunica di lana scura forse verde forse nera su cui risaltavano tonalità di arancio e di rosso, un bastone accanto. Michele se ne stava supino e paralizzato in attesa. Sentì il sorriso buono della donna alle spalle. Niente poteva trattenerla: si avvicinò rapida, si curvò su di lui.
Lui aprì grandi braccia e la circondò, lei poggiò la testa sul suo torace e pianse.
Improvvisamente si ritrovò sull’apertura di una piccola stanza di pietra; al centro, vestito di bianco, seduto in posizione di loto, serafico, l’essere se ne stava immobile, lo sguardo all’infinito. Fu colpita dagli occhi, uguali ai suoi e dallo spettacolo della luce.
L’uomo era circondato e come compenetrato da fasci di luce dalle tinte tenui, sfumate di verde, rosa, violetto, azzurro che ruotavano lentissimamente. A momenti anche la posizione del suo corpo cambiava, alternando un’immagine di profilo seduta su una sedia, pensierosa, a quella del loto. Era una visione di indescrivibile serenità. <Non siamo> <Non siamo> <Non siamo> pensava lui; <Siamo> <Siamo> <Siamo> rispondeva lei. Potevano comunicare con la mente.
<Perché non mi aiuti?> <Troverai la soluzione da sola.>
La luce disfece l’immagine, impallidì, ruotò ancora un poco, si spense.
La torre
Michele si era costruito una torre dalle mura robuste. Solo il tetto era di vetro trasperente. Per vedere sempre il cielo. Si era chiuso nella stanza pentagonale, scegliendo come compagni i libri e il sussurrare dei morti. Lì niente gli faceva paura. Non aveva più bisogno della mano di Melina. Del resto lei era morta. Quel giorno. Quando vide accartocciarsi la valle come un foglio, l’inchiostro nero colare alle pareti e nelle tenebre lanciò il suo ultimo grido.
Era morta e lui aveva smesso di gridare. Leggeva, scriveva, misurava la distanza delle stelle. Lasciava che il tempo gli scivolasse addosso. Pensava, immaginava, ascoltava i rumori del mondo.
Saliva e scendeva le scale della torre. Attendeva che l’aria si separasse dalla polvere. Sapeva che ad orologi impazziti sarebbe giunta l’ora.
A volte si dimenticava. Quel giorno era solo un giovane padre con famigliola e amici al parco di Bomarzo. <Facciamo vedere i mostri ai bambini.> E i bambini avevano saltellato per il bosco sacro, rotolato sull’erba dei pratini, riso dei grandi mostri grotteschi sdraiati tra gli alberi. Al tramonto erano tornati tutti alla macchina sereni. Però Michele si era staccato ancora e la sua ombra era rimasta seduta tra le braccia aperte di Proserpina.
Quando si levò la luna, entrò nella casa storta. Fu una vertigine; perso ogni punto di riferimento gli parve di trovarsi in un altro parco. Accanto aveva l’ombra di Melina. Salirono le scalette di pietra silenziosi, entrarono nella casa e la piccola scomparve nella donna affacciata alla finestra. Si erano ritrovate.
Il pozzo
Si tolse le scarpe, si avvicinò decisa al bordo, lo scavalcò. C’era da cercare quella bambina, da metterla in salvo, non poteva pensare a se stessa. Cominciò a scendere le scalette di ferro, poste all’interno del pozzo, pensando solo ad aggrapparsi bene a quelle superiori man mano che scendeva e augurandosi che in fondo non ci fosse troppa acqua. Del resto non pioveva da mesi e i pozzi non tiravano più.
La luce diveniva sempre più debole, le scale e le pareti sempre più scivolose. Sentì il vuoto sotto il piede, che si era allungato a cercare lo scalino; capì che era arrivata al fondo; guardò verso l’alto. Solo un globo di luce lattescente. Allungò il piede e cercò l’acqua. Percepì con disgusto solo qualcosa di viscido, come un corpo morbido che si afflosciava sotto i suoi piedi. Aveva avuto sempre orrore di tutti i rettili e quello doveva essere un serpente enorme, forse acciambellato, forse addormentato. Cercò di spostarsi e trovare il fondo di sassi e acqua, ma i piedi continuavano a pestare solo carni e spire. Per il terrore perse l’orientamento; per quanto provasse, non riusciva a ritrovare le scale. Intanto le sembrava che dal corpo del rettile si sprigionasse come un flusso di energia che la irrorava tutta e la incantava. Una luce bianco azzurra le penetrò tutte le fibre e le uscì dal dorso dei piedi e delle mani, prendendo forma di piccoli serpenti luminosi. Dal centro della fronte le uscì un cobra eretto, dagli occhi splendenti come smeraldi. Era calma ora, sentiva che aveva visto quell’immagine da qualche parte, ma non ricordava dove.
Il parco
Durò poco, poi la sensazione scomparve, sentì sotto i piedi i sassetti e l’acqua fino alle caviglie. La bambina uscì dall’ombra all’improvviso, la tirò per i pantaloni <Vieni > e la condusse verso una parete dove riuscì ad intravvedere un foro largo quanto bastava per attraversare il muro del pozzo. Melina avanti, lei dietro, attraversarono insieme all’acqua che scivolava fuori e scorreva al centro di quella che le sembrò una caverna di roccia appena illuminata da un raggio di luce spiovente. Nelle viscere.
La bambina sembrava sicura, come conoscesse la strada. La guidò tra le pietre appuntite del fondo, la tirò verso delle rudimentali scale di pietra, che salivano a chiocciola nel buio.
Saliva in quella irrealtà silenziosa fatta di macchie più chiare o più scure, di masse nere e minacciose, di radi sgocciolii d’acqua. Infine si trovò in un pianerottolo e sopra la sua testa la luce e l’aria. Guardò in basso: la luce colorava profili di stalattiti e stalagmiti pinnacoli e guglie di pietra così ferme da millenni, così vive, così morte. Il lavorio lento del tempo. Melina era di nuovo scomparsa. Pensò che avesse già passato la porta chiusa alla sua destra e ci provò anche lei. Posò la mano sulla maniglia di ferro, l’abbassò, tirò e la porta si aprì su una stanzetta circolare dal soffitto conico, del tutto vuota. Si avvicinò alla finestra, guardò fuori: il parco Guell riposava al lume di luna; la cascatella di fronte scianguottava a ritmo lento lucidando le rane e i piccoli rettili di ceramica.
Il dubbio
Il pugno, era divenuto un minuscolo monolite. L’anello nella mano le sembrava caldo, pesante, vivo.
Si avvicinò leggera, confondendosi con i cespugli. Allungò lo sguardo dai mattoni forati che davano luce al granaio. Lei fuori, piccola con i capelli nel sole, loro all’interno, a capotavola, eleganti negli abiti scuri. Non li aveva mai visti così belli, così suoi. Si perse a contemplare i decori di fiori veri e di foglie alle pareti e negli angoli. I bambini chini sotto i tavoli che raccoglievano confetti. I visi dei commensali, grotteschi. Era festa. Bevevano, cantavano, mangiavano, scherzavano.
< Quando avrai l’anello – aveva detto Nunziata – lo devi dare ai tuoi genitori, durante la festa del loro matrimonio. Solo così romperai l’incantesimo della malasorte e loro non dovranno affrontare la perdita dei figli>. < Ma se i miei fratelli non moriranno, io potrò nascere?> Nunziata aveva avuto un lampo di compassione <Questo non mi è dato saperlo>.
Era lì, poteva entrare, confondersi con gli altri bimbi sotto i tavoli, arrivare gattoni alle gambe degli sposi, allungare il braccio e posare il talismano sul loro piatto. Sarebbero stati felici per sempre.
Ma lei sarebbe nata?
A dodici anni scappò dalla strada e dalla casa, cercando di scrollarsi di dosso il suo essere. Si rifugiò nella periferia, nei campi, nei boschi. Solo. Con quella marea di sangue dentro che lo annegava. Solo, con tutto il mondo dentro. Soprattutto il mostro.
La luna sfolgorava tonda al centro del cielo; lontana, in un oceano d’aria. E il sangue di marea rapido salì alla testa. Gli sembrava di esplodere dentro la paralisi delle fibre. Immobile, di fronte al laghetto, vide il mostro materializzarsi come un’ombra minacciosa. Enorme, peloso, agitato si gettò nell’acqua, si scosse, sprofondò, riemerse; i grandi occhi folli su di lui, la bocca digrignata. Il lupo mannaro l’aveva puntato, non c’era scampo. Provò a correre. Il corpo non si muoveva.
La donna giunse da dietro, gli pose una mano sulla spalla. Insieme guardarono il mostro negli occhi, finché non scomparve.
< Non ti possiederà più, si è dissolto.>
Tra i due mondi
Mangiavano fragole e cioccolatini, alzavano calici alla Parola. Ridevano nel ritrovarsi, piccoli narcisi, dentro antichi palazzi, al primo vento di primavera. L’ancella sfinita ce l’aveva fatta. Incastrati tra i libri la sua famiglia di ribelli al completo, le amiche, tutti gli altri. L’atmosfera era buona, sembrava vera; solo lei mancava, lei come sempre non c’era.
Chissà da quale tempo chissà da quale spazio Michele le aveva risposto. <Togli quella mano; ho bisogno del mio mostro.> Ora era così vecchia, le sembrava che non le fosse rimasto niente. Dormire. Sognare. Ma non aveva sempre dormito e sognato? Qual era la vita? Quella vera.
Quando sentiva sua moglie aprire la porta e i bambini saltellare per le scale, riemergeva dai suoi sogni solitari, apriva la porta si lasciava illuminare dalla luce proveniente dal finestrone e gli sembrava di attraversare un vetro. Passava da un mondo all’altro felice di farlo, era come ritornare in vita e scoprire odori, suoni, movimento, tutte le volte per la prima volta. Allora era contento di collaborare ad ogni lavoro che c’era da fare al momento. Si rotolava nel tappeto con i figli, andava a buttare la spazzatura, si piccava di cucinare lui per tutti. Ed era bravo davvero ad inventare nuove saporose ricette vegetariane. Ormai riusciva a dominare la sua pluralità e le sue dislocazioni.
Pensava a Michele. Chi era davvero? Il suo compagno di giochi, l’essere in frantumi quello sdraiato nel letto come una divinità? Quel dio paralizzato. Ogni volta era una trafittura acutissima pensarlo preda della malattia.
La rinuncia al sogno
Avevano cominciato i piedi a ribellarsi. Così dolorosi ogni volta che li poggiava a terra. Camminava sempre meno. Le mani non reggevano la presa. Gli occhi si perdevano nella loro nebbia. Ogni gesto diventava lento e difficile, fuori tempo. Poi la malavoglia l’aveva assalita e sottomessa. In fondo non c’era motivo per darsi da fare. Si poteva restare inerti in poltrona o nel letto per ore e ore, lasciando che il pensiero si sregolasse e confondesse. I piccoli progetti quotidiani avevano assunto forma liquida, le spinte a fare qualcosa cadevano come i capelli. Anche i denti erano caduti. Aveva chiuso nei cassetti tutti gli specchi. Aspettava. Ora si vedeva dall’alto del soffitto: un guscio vuoto. Perché niente, niente di quello che aveva fatto, pensato, detto aveva avuto senso. Ogni mano ogni cuore che aveva toccato e amato si erano infine allontanati. Era così per tutti alla fine della vita? Un deserto senza voci?
C’era una vastità di luce dorata distesa sul mare; anche lei era luce riflessa, rifratta; in lontananza, all’orizzonte, la macchiolina nera di Michele si muoveva sul confine terra cielo. Melina lasciava piccole orme d’oro fuso sull’acqua.
Il guardiano degli alberi
Dopo l’esplorazione nella città alta, scesero al porto. Era sera. Oltre il trafficato viale lungomare, c’erano i parcheggi e un giardino di grandi ficus lucenti. <Compriamo dei panini e andiamo a mangiarli sotto gli alberi, almeno la brezza ci rinfrescherà>. Suo marito acconsentì, contento di potersi finalmente sedere al fresco. Seduti su un muretto, stavano mangiando un panino al formaggio e bevendo birra, quando da dietro i tronchi spuntò un individuo alto e barcollante <Ho fame> disse con naturalezza. Melina lo guardò con curiosità: pantaloni e maglietta bucherellati, vecchie convers stracciate, capelli crespi e sporchi, unghie nere <Un barbone; giovane, troppo giovane, cosa gli sarà successo?> pensò, mentre gli allungava un panino. Lui afferrò il pane e le si sedette accanto. Suo marito bisbigliò preoccupato <Chi è, che vuole questo?> <Chiediamoglielo.> E rivolgendosi al giovane <Da dove vieni?> <Dagli alberi> <Sì, l’ho visto. Intendevo dove stavi prima.> <Prima non lo ricordo. Io sono il guardiano degli alberi.> <Vuoi dire che ti occupi della loro salute?> <Della loro vita. Sono sempre stato qui. Li innaffio, gli lucido le foglie, scaccio quelli che rompono i rami, non permetto a nessuno di arrampicarsi.> <Perché?> <Perché sono il guardiano.>
Suo marito, sempre più agitato <Dagli qualcosa e andiamo> disse, alzandosi.
<Dove vai? Vieni che te li faccio vedere da vicino> cominciò a saltellare il barbone, tirandolo per la maglietta. <Lascia> intervenne Melina <deve andare a prendere la macchina al parcheggio, altrimenti ci fanno la multa>poi, rivolta al marito <Vai, ti aspetto sotto quel lampione> e lo seguì fin lì.
Quando il marito scomparve tra le auto, tornò indietro commossa dalla solitudine del giovane, che ora ciondolava tristemente sul muretto.
<Ciao, i tuoi alberi sono splendidi. Svolgi un lavoro magnifico.>
Lui si riscosse <Vuoi vedere il mio posto segreto?> <Non posso, devo andare.> <Dai, un attimo solo.> Melina si lasciò tentare dalla curiosità. Ora sembrava allegrissimo, accelerò il passo, la prese per mano e la condusse vero un albero gigantesco al centro del parco. Scostò dal tronco un cespuglio <Guarda> esclamò soddisfatto, indicando una cavità alla base del tronco <entra, è la mia casa.> <La tua casa? Vuoi dire che dormi lì dentro?>
<Voglio dire che è la mia casa, la mia casa, la mia casa. Entra>. <Sì, sì; ho capito; ma non entro; sono troppo grossa non ci passo>. <Entra, entra> spingeva lui.
La paura cominciò a serpeggiarle nella schiena; guardava la cavità buia, sentiva le spinte sempre più violente, poi le mani che le stringevano le braccia, poi l’intero corpo sul suo dorso. Si voltò per fermarlo e restò paralizzata. Sarà stata la luce scarsa che le giocava un brutto scherzo, ma il giovane le sembrò ricoperto da un’armatura di squame verdi, le mani si erano trasformate in artigli, il viso nel muso di una belva a fauci aperte.
Per un attimo si sentì perduta. <Devo pensare, pensare, pensare> poi le venne spontaneo allungare la mano e fargli una carezza sui capelli. Lui si disarmò, ritornò alla normalità, restando irrigidito, in piedi, a testa bassa.
Il marito la trovò ad aspettarlo sotto il lampione. Lei pensava che non si deve mai aver paura della paura.
La consegna
Infine qualcosa le si strappò dentro, alzò la mano fino al piatto, lasciò cadere l’anello.
La madre lo vide luccicare, abbassò gli occhi sul visetto che spuntava da sotto la tovaglia, ne incrociò lo sguardo. Raccolse il cerchietto d’oro e glielo porse <E’ tuo Melina, solo tuo. Non puoi risparmiarci il dolore, cara; tu puoi vivere anche per noi; tu sei la nostra allegria>.
La manta
Vedere dall’alto. <Se guardi dall’alto, niente ti rattrista> pensava mentre saliva sulla città, dentro la cabina del London Eye <si prendono le distanze e ogni cosa appare buffa e senza vera importanza>.
La città si estendeva a perdita d’occhio. Edificata in secoli e secoli di lavoro umano. Eppure gli uomini non erano che puntolini dispersi e rapidamente cancellati dall’altezza. Ecco perché non riusciva mai ad affrontare le situazioni con la serietà dovuta. Nelle riunioni di lavoro, più che concentrarsi sul problema del momento, si perdeva a guardare gli atteggiamenti altrui ed ogni situazione, persino la più grave, le sembrava comica. Ognuno recitava la propria parte. Le maschere si sprecavano. Le chiamavano ruoli, status, decoro ma non erano che scudi dietro i quali nascondere fragilità e pochezza.
Non sapeva da quanto fosse imprigionata sotto il grande corpo della manta, schiacciata sulla sabbia del fondo, accecata dall’oscurità, smarrita dal silenzio.
Percepì come un leggero sollievo alla schiena, poi sentì più netto il corpo della manta solleversi dal suo e innalzarsi verso l’alto; sbarbagliò luce azzurra e potè vedere le grandi ali appuntirsi sulla sabbia, ondularsi ed infine sollevarsi tra nuvolette di sabbia. Si rotolò sul fondo fino a ritrovarsi supina. La manta, come un grande corvo nero, si allontanava leggera verso la superficie. Era libera, dopo tanta apnea.
La caduta
I bambini sfidavano i getti d’acqua, che uscivano dall’asfalto e lucidavano la grande piazza, come guerrieri impavidi, esaltati dalla lotta. Era mezzanotte di torrido agosto; Michele più là guardava felice la pietruzza verde che aveva trovato sul muretto; alla luce dei lampioni brillava come uno smeraldo. La bellezza gli aveva fatto dimenticare anche le strida vicinissime dei compagni eccitati. Si riscosse quando scese il silenzio; nel fruscio delle fontane alzò la testa e li vide venirgli incontro tutti insieme, decisi a derubarlo. Gridò e corse all’impazzata tagliando la piazza, saltando le scale di un vicolo, inoltrandosi per un largo viale che portava fino alle mura della città. Dietro sentiva la torma che guadagnava terreno; non ce la faceva più, raggiunse un muretto, si voltò: vide solo esseri mostruosi e cristalli balenanti.
Sollevò il piede per riprendere la fuga ma calpestò il vuoto. Il cuore sussultò e si fermò; in caduta libera, le luci della città sbarbagliavano e si spegnevano una ad una.
Era autunno quando, accompagnato dalla mamma, uscì dall’ospedale. Non parlava più.
I genitori non capivano come, davanti allo spettacolo di una natura piena di calore, alle vigne cariche d’uva, ai torrenti che scorrevano allegri per la campagna, dove lo portavano a fare lunghe passeggiate, lui restasse totalmente indifferente, gli occhi rigirati all’interno di sé. Nessun gesto che manifestasse il minimo entusiasmo o almeno una men che minima esigenza. Non capivano perché all’improvviso si mettesse a correre furiosamente o, con indicibile rapidità, battesse le ciglia come a voler scacciare delle orribili visioni e poi cadesse svenuto.
Il soldato sparò e corse; ghignando soddisfatto, si avvicinò al bambino a terra, gli pose la mano sulla bocca, poi lo sollevò, ne strinse il corpo tra le ginocchia, gli avvinghiò le mani sul collo tenero, ruotò, tirò e lo finì. Con un grugnito lanciò il piccolo corpo lontano da sé.
Arrivarono gli altri. Quando videro Michele si immobilizzarono. Uno lasciò la presa e raccolse da terra un grosso bastone, gli occhi lampeggiavano su di lui e si avvicinavano.
Tutto divenne rosso e bruciante, qualcuno urlava. Michele sprofondava e sprofondava nel fuoco. C’erano ombre di esseri primitivi che sgozzavano altri esseri. Smembravano i cadaveri con i coltelli di pietra e gettavano le carni sulla brace dei fuochi. Donne e bambini mangiavano famelici. Il vento muoveva violento le fiamme che si staccavano e volavano verso l’alto. Poi fu il buio totale e il gelo.
Quando cadeva a terra in quel modo, la madre lo tirava su, lo accarezzava, cercava di riscaldarlo, finché non riapriva gli occhi inespressivi.
Un giorno iniziò ad urlare a ritmo del respiro e non ci fu più niente da fare. Dovettero ricoverarlo.
L’aereo
Era notte sull’autostrada dove sfrecciava, tutt’uno con l’auto nei sorpassi, attenta ai camion che lampeggiavano nello specchietto. All’orizzonte le luci dei paesi disposti disordinatamente sui crinali. Un bagliore si allungò da un’ondulazione lontana, spargendo in cielo aloni di luminosità.
Aumentava velocemente, incandescente e viva, finchè uscì tutta intera enorme e rosseggiante dal buio. Melina ne era incantata. Continuava a correre sull’asfalto evitando gli ostacoli, sbirciando la luna che si rimpiccioliva e sbiancava man mano che saliva in alto, quando una massa enorme e rumorosa tagliò il cielo sulla sua testa. L’aereo, con la coda in fiamme, continuò per un po’ il suo volo a pochi metri da terra in direzione della luna poi si schiantò. Il traffico rallentò. Melina si portò sulla corsia d’emergenza. Fermò la macchina, uscì, scavalcò il guard rail e corse verso il punto in cui era caduto. Mucchi di terra frantumata, frasche, polvere, fumo, piccole lingue di fuoco. L’aeroplano sembrava una grande bestia abbattuta. Silenzio, solo lo sfrigolare spaventoso dei focherelli della coda. Ombre confuse si addensavano agli oblò. La fusoliera sembrava integra e il portellone socchiuso.
Cercò di aiutare la gente che lo spingeva dall’interno, tirandolo con tutte le sue forze. Finalmente si spalancò. In un silenzio irreale, i passeggeri cominciarono ad uscire ordinatamente, aiutandosi uno con l’altro.
Alla fine dell’esodo, Melina entrò e, tra i bagagli sparsi ovunque e il fumo, cercò i feriti. C’era un anziano con le gambe spezzate; chiese aiuto; alcuni passeggeri tornarono indietro e lo trascinarono fuori.
Così fu per una ragazza ferita alla testa e dopo per un giovanotto svenuto. Sembrava non ci fosse più nessuno, quando in fondo alla fusoliera, tra dense volute di fumo, scorse gli occhi sbarrati di un ragazzo. Si avvicinò, mentre fiamme e calore aumentavano, lo riscosse, gli aprì la cintura di sicurezza <vai> <vai> ma lui non si muoveva. Staccò il martello appeso alla parete e cominciò a colpire con decisione l’oblò più vicino. Alla fine si schiantò in una gragnuola di vetro. Sollevò il ragazzo e gli infilò la testa e il torace nell’apertura, poi lo spinse, finchè non cadde al di là <Vai> <Corri corri>.
Si voltò verso il fondo: il fuoco divampava alto, assumendo la forma mostruosa di un essere umano gigantesco che ruotava le spalle incandescenti sulle pareti. Indietreggiò e si diede ad una fuga disperata. Fu quando raggiunse gli altri che l’aereo esplose. L’aria la gettò a terra supina, la luna divenne rosso sangue. < Michele è salvo> e le sembrava di vederlo correre tra i cespugli, lontano dal disastro.
Farmaci e parole fecero il loro effetto: lentamente risalì dall’abisso, ricompattandosi fino a riconoscersi negli specchi. Un giorno disse al medico il suo nome. Ce l’aveva fatta. Ma era molto debole, incerto come un bambino che inizia a camminare, e preferì restare ancora un po’ insieme agli altri degenti e alla squadra, dalla quale si sentiva protetto. Ascoltava musica, disegnava, inventava storie, osservava con attenzione i comportamenti di tutti. Una mattina una ragazza venne a fare visita al suo compagno di stanza e fu come se, dopo la lunghissima notte gelida, fosse sorto il sole.
La fuga
Non poteva fermarsi. La città di pietra era un utero dal quale rinascere ancora. Si inerpicò sulle pareti della grande sala verso la luce in alto. Non era facile, il piede scivolava sulla polvere, le mani si scorticavano nella presa; fu l’abilità acquisita da bambina nelle sue escursioni solitarie a condurla in cima. Fuori, nella luce dell’alba. Dall’alto la pianura era una distesa di morte, i nemici macchie grigiastre inerti, incollate alla terra. C’era da affrontare il canyon e le sembrava quasi impossibile. L’incubo della caduta di tutti i sogni di bambina ritornava. Temeva la paralisi, la contrazione dei muscoli, la rigidità delle fibre, la frantumazione del corpo. Il vento soffiava sempre più intenso, risuonava ovunque, l’avvolgeva con le sue onde morbide. Respirò a fondo e si lasciò andare come una foglia che si stacca dal ramo.
Rapidamente l’aria la portò sopra il baratro la mulinò dentro la profonda ferita della terra; la sua mente lasciava cadere ogni zavorra. Leggera leggera, aderire alle pieghe dell’aria, essere aria, non pensare, farsi occhi, lente, contemplazione. Essere colore nel colore, musica nella musica, aria nell’aria. Non essere. Sapeva che se solo avesse mantenuto un pensiero, un granello di sabbia, sarebbe precipitata. E il vento con un’ultima raffica la fece riemergere e la depositò al di là del canyon.
Il serpente
Scese nel seminterrato ed aprì la porta del sottoscala per prendere una bottiglia d’olio. Un fruscio. Silenzio. Un fruscio. Da dove proveniva? Guardò sotto le cassette, tra le bottiglie di vino; non c’era niente. Stava per afferrare l’olio quando vide spuntare da sotto i cestini portafrutta la testa di un grosso serpente. Scattò all’indietro nel tentativo malriuscito di uscire e chiudere la porta. Il serpente si dirigeva lento e deciso verso di lei, scuotendo la lingua. Ne era terrorizzata: grosso scuro orrendo. Schiacciò la schiena al muro, sperava solo che non fosse velenoso, non trovava via di scampo. Con la mano sinistra sentì un bastone appeso alla parete, lo tirò e si accinse al combattimento. Ma la serpe sembrava non volesse attaccarla, ora si muoveva sinuosa davanti a lei come se danzasse e in ogni ansa del corpo sorgevano florescenze verdi dorate. Melina ne era affascinata. Poi con uno scatto si erse, allungò la testa e restò immobile davanti a lei, guardandola negli occhi. Le sembrava che gli occhietti della bestia sorridessero tra l’astuto e il benevolo < Io sono il farmaco, il farmaco.> Non capiva ma lasciò il bastone.< Io sono il farmaco, io sono il farmaco, io sono il farmaco> continuava il serpente e si girava lento su se stesso, fino a formare un cerchio, fino a toccarsi la coda con la bocca. E continuò a girare e girare, illuminandosi tutto. <Ha lo stesso colore dell’olio> pensò Melina.
Per un attimo le sembrò che l’immagine di un medico sapiente prendesse il posto della serpe, ma fu un attimo poi lo spazio ritornò alla sua normalità; la bestia era scomparsa. Melina prese la bottiglia d’olio e tornò in cucina.
Il serpente si girava lento su se stesso, fino a formare un cerchio, fino a toccarsi la coda con la bocca. <E’ il farmaco, è il farmaco, è il farmaco> sussurrava lento il medico, osservando Michele che osservava il filmato incantato.
<E’ la tua energia vitale. Tantra. Tanta. Non averne paura. Dominala. Sai farlo. Sai farlo. Sai farlo.> La voce avvolgeva Michele e lo pacificava.
La pioggia
Non era facile tornare a casa dopo quella lunga riunione di lavoro. Guidava attenta da ore sotto la pioggia battente. Pioveva senza sosta da quasi due giorni ed i campi intorno alla città non ce la facevano più ad assorbire, così l’acqua che li allagava, appena trovava un minimo dislivello, si rovesciava sull’asfalto. Con le luci abbaglianti delle auto che sopraggiungevano in senso contrario, la scorgevi all’ultimo momento e ci finivi dentro, ritrovandoti come al centro di una cascata che impediva qualsiasi visuale. All’inizio le era parsa divertente tutta quell’acqua ovunque, ma, calata la notte, si sentiva stanca e preoccupata. <Manca poco> si consolò, mentre entrava nella porta principale della città. Seguì le indicazioni lasciate dai vigili, evitando tutte le strade e i sottopassaggi interrotti, prese il viale che costeggiava la ferrovia e finalmente si trovò al semaforo vicino casa sua. Aspettò il verde e ripartì svoltando a sinistra. Un barbone traballante le comparve davanti all’improvviso; sterzò a destra per non travolgerlo e perse il controllo dell’auto. Vide il muro della casa venirle incontro a velocità incredibile poi si accesero mille soli.
La slitta scivolava veloce sul ghiaccio polare. Da sotto le pellicce che l’avvolgevano tutta, Melina osservava quell’immensità che scintillava gelida e azzurra, al lume di luna. Altrove qualcuno la stava aspettando.
Il barbone udì il botto e vide l’auto schiantata. Accorse, cercando di tirare fuori il corpo della donna, ma la portiera piegata non si apriva. Intanto stava accorrendo gente; si spaventò e si allontanò.
Più che mai confuso, con la sensazione di conoscere quella donna, cominciò a tremare e correre, correre verso le piante del parco. Non si rese conto di scivolare nel laghetto finché non si sentì risucchiare dall’acqua e dal fango. Ma gli sembrava che a risucchiarlo fosse un delirio di luce.
Il castagno
Funghi, castagne? La foresta, che rivestiva tutte le alture intorno alla città, li accolse con il suo intrico di multiformi vegetali silenziosi. L’aria si fece verde, il sentiero scivoloso di muschio; quasi un percorso di guerra. Si scavalcavano grossi tronchi scortecciati, si calpestavano piccole pigne marcescenti. L’occhio saettava dagli stravaganti funghetti-margherita, alle fronde che impedivano il cammino, alle balze scivolose di terriccio. Ovunque si scorgevano forme inconsuete in quell’aria primordiale. Paesaggio alieno - pensava Melina, mentre rispondeva alle domande dei compagni e partecipava al gioco - non occorre esplorare altri mondi, già questa nostra terra ci riserva sorprese continue, a saperle cercare, a saperle vedere.
Scendevano verso il tempio dei castagni; si disperdevano, piccoli esseri rasserenati, sotto quel tetto di foglie, sopra quel letto di disfacimento.
Poi fu la radura. Di colpo Melina s’incantò: al centro, il castagno secolare sembrava un gigante sconfitto. Annientato dal fulmine. Se ne stava immobile, il grosso tronco mezzo scortecciato che terminava in cinque monconi di rami contorti; tutt’intorno, a terra, i resti dei suoi rami come corna di animali primordiali, come canoe o antiche imbarcazioni disossate.
Le parve di riconoscerlo; era come se stesse aspettandola, come se le parlasse. L’attrasse a sé.
Si avvicinò, carezzò il muschio della corteccia, la carne liscia e umida, denudata; lo abbracciò. Il tronco si allargava sulla terra in ondulazioni di corteccia e cavità. Tane accoglienti e misteriose -pensò- chinandosi, per entrare in quella più grande. Nel buio, che sapeva di legno umido, luccicò qualcosa: un piccolo piccolo oggetto in bilico sulle fibre legnose. L’anello! Infine l’aveva trovato.
C’era voluta quasi tutta la sua vita lineare, terribili prove, speranza e disperazione, pazienza e sperdimento, impegno e volontà, c’era voluto di non credere più al sogno, di lasciarsi andare allo scorrere lento dei giorni e l’anello le era stato restituito. Restituito? Voleva dire che era suo fin dall’inizio? Che doveva solo riconoscerlo? Non poteva chiedere ai compagni. Solo Michele, l’invisibile Michele, poteva saperlo. Dov’era dopo tanta dimenticanza? Le parve che dal grande tronco si sprigionassero delle onde concentriche; allora, con un palpito di gioia, avvertì che era lì; era il castagno.
La luna nera
Nel buio assoluto, anche il silenzio non era quello della terra. Questo era eterno. Non ci sarebbero stati mai il vento e l’acqua a scuoterlo, alcuna forma di vita mai, tra i ciottoli e la sabbia. Sapeva di arditi astronauti che avevano raggiunto quei luoghi ed erano riusciti a tornare; anni di allenamento, sgomento e sacrifici. A lui era bastato pensarla, in notti irreali trascorse nella sua contemplazione. Alla fine la marea di luce, l’aveva risucchiato e portato con sé.
Se ne stava accucciato sulla sua pelle nera in quella solitudine astrale, lontanissime le stelle, ancora più lontana sembrava la terra.
Sulla luna non sarebbe stato più necessario parlare. Aveva preso la luna. No, era lei che aveva preso lui e non lo liberava.
I saltelli a piedi nudi di Melina risuonarono come un boato. <Cosa fai qui da solo? Vieni, andiamo.> <Come hai potuto arrivare fin qui?> <Mi ha guidato il mio amore.> <Il tuo amore? Sai cos’è?> <No, con precisione no. Credo che sia il bisogno di volere il bene degli altri anche quando ci fanno del male oppure quello di volere il proprio. E’ quando stai bene con un'altra persona, quando non ti stancheresti mai di ascoltarla o di raccontargli i tuoi pensieri.> <Non hai paura di me?> <A volte, quasi sempre, ma poi qualcosa la vince; è come per una rosa rarefatta che, schiudendosi, involgarisce la bellezza di tutte le altre>. Non capiva, ma si sentiva trasportare nello spazio morbido, il corpo unito a quello di lei. Si allontanavano dalla massa scura della luna, desiderando solo la luce e la terra.
Disorientati dall’oscurità, videro apparire una specie di cometa. Non era una cometa, piuttosto una nuvola di nebbiolina luminosa, una scia che si spostava nella direzione della sua parte più densa. <Sembrano fantasmi di esseri umani> <sembra un corteo di anime>. Davanti a tutte quelle forme avviluppate l’una all’altra c’era un essere a due teste, una aveva la forma del sole, l’altra della luna. <E’ bellissimo> <E’ perfetto>. Si spostarono verso il prodigio e fu allora che si resero conto di trovarsi davanti ad uno specchio. <Siamo noi> sussurrarono insieme, infinitamente meravigliati. Ora era chiaro perché quello che pensava uno sembrava che l’avesse pensato l’altro.
…e il tempo tornò…
Le dune
Se ne stava distesa sulla sabbia morbida, in un avvallamento tra una duna e l’altra ad osservare la perfetta bellezza del piccolo giglio di mare, che ondeggiava alle folate di vento.
Le sue dune, di mattina; il profumo della macchia. I piccoli ginepri, i ligustri, le ciocche di margherite in fiore. Il frangersi lento del mare sulla grande spiaggia. Non c’era luogo migliore per salutare la sua avventura sulla terra. <Sarà come quando si abbassa un interruttore>
<Vai a lavoro, Melina?> era così viva sua madre mentre diceva le ultime parole, quella mattina d’inverno, seduta al tavolo con il tovagliolo al collo, mentre le imboccavano la colazione. Era come se avesse detto non mi abbandonare, resta. E lei l’aveva abbracciata ed era uscita triste.
Quando credi di aver dimenticato, le immagini tornano così nitide, ma così nitide, che ti stupisci di possederle ancora; come quella volta che improvvisamente le era apparso il viso del suo primo amore, così come era stato a vent’anni e come non sarebbe stato più. Allora aveva compreso: anche il contatto di un attimo, s’imprime per sempre nel nostro cuore. Tutto ciò che abbiamo conosciuto resta in noi. Tra la nebbia dello sguardo, scorse la sua famiglia sulla spiaggia, i bambini, i figli, le compagne dei figli, suo marito. Si sentì allegra, avrebbe voluto ancora camminare a quattro zampe sulla sabbia, con i figli a cavalcioni sulla schiena, provare il salto in lungo con le bambine, stonare le canzoni preferite con il suo uomo.
Il suo uomo, che da ragazzo si passava le dita tra i lunghi capelli, come avrebbe fatto ora, che era quasi calvo; e non poteva più guidare la moto; e non poteva più leggere il giornale per tante ore; il suo uomo, bambino sempre; le veniva da ridere; ma sì, poteva farcela anche senza di lei.
Sull’altra costa, dall’altra parte del mare, anche Michele giocava sulla spiaggia con i suoi figli e la sua donna. Lo colse, sagoma controluce, nell’attimo in cui si slanciava a parare la palla in volo <Bravo, l’hai presa> esultò, poi si spense. Il piccolo giglio rabbrividì.
Aveva avuto una vita lunghissima, lui, che cercava la morte ogni giorno, senza ragione. Quando la famiglia lo vedeva aprire la porta della torre e richiudersela alle spalle, lo lasciava andare e restava in attesa: prima o poi sarebbe tornato dal suo viaggio con le mani colme di sassetti colorati per tutti.
In solitudine, fuori il mondo, Michele dava sfogo alla sua energia creativa. Aveva ammucchiato un’enorme quantità di libri che leggeva e rileggeva, quaderni aperti dappertutto in cui appuntava i pensieri che come acute punte di spillo gli bucavano la testa, disegni, schemi, calcoli: il pensiero umano scorreva e dilagava dentro quelle mura spesse; lo inondava in analisi e sintesi e poi esplodeva in intuizioni e illuminazioni. Ogni volta gli sembrava di morire di parto e ogni volta rinasceva, dopo l’esplosione di tutte le sue fibre. Dopo. C’era sempre una parola, un’immagine, una musica che non era mai esistita prima e che avrebbe commosso l’umanità.
Nessuno lo aveva mai incontrato realmente eppure molti lo conoscevano e lo amavano attraverso le sue opere. Quell’amore, che penetrava dentro le mura e lo avvolgeva, gli faceva l’effetto della piccola coccinella allegra che si posava a sorpresa sulla scrivania e, impavida, talvolta, gli risaliva le dita e il braccio. Come se dicesse <non sei solo> <non sei solo> <nessuno è solo mai>.
Ma lui non poteva essere allegro come l’ingenua coccinella, la sua anima conteneva il piombo della crudeltà e del dolore umano; rappresentarlo in colori cupi, parole nere, suoni dissonanti, era il suo destino.
Dalla torre vedeva succedersi le stagioni, voltoni di anni che lentamente rendevano più fragile il corpo, più debole la mente. Quel giorno, in rumori impercettibili, gli orologi delle pareti si liquefecero e colarono sul pavimento. Sentì che il momento temuto e sperato stava arrivando. Allora aprì la porta della torre, uscì nella luce, s’incamminò verso la spiaggia. Alle dune si lasciò alla sabbia, spossato. Due tortore sfrecciarono verso il mare. Nel suo sguardo annebbiato si mutarono in due bambini che correvano allegri e si perdevano lontani all’orizzonte, confondendosi con l’aria.
Epilogo
La luce frangeva il buio e, nel baluginio dell’ombra, era crepuscolo ed era aurora; era autunno ed era primavera.
Scintille d’oro pulsavano, rallegrando l’aria, perché tutto era stato reso come si conviene alla vita, quando tenacemente si attacca alla volontà di rendere al mondo tutto ciò che l’ha nutrita.